Archivi categoria: Pizze e focacce

Una pizza a quest’ora?

Tra poco è ora di cena, e questa non è ora di pizze. Non lo è nella tradizione gastronomica della casa in cui sono cresciuto, che oltre che “gastro” è molto “nomica”, nel senso che è regolata da leggi e consuetudini ataviche e soprattutto rigorose, rispettate sempre con attenta scrupolosità. Tra queste c’è quella che riguarda la pizza di cui vi parlo oggi: non si mangia mai a cena; solo a pranzo. Non è la pizza a cui state pensando: in Abruzzo tante cose portano il nome “pizza”. Questa è una di quelle. È la cosiddetta “pizza ggialla” o “pizz’ d’ ‘randinnjie,” cioè “pizza di granturco.” Si accompagna alle verdure, o allo stoccafisso, che a casa dei miei si mangiano solo, e dico SOLO, a pranzo. La pizza convenzionale, invece, si mangia solo, e dico SOLO a cena. Come del resto la verdura si mangia il lunedì, il brodo  il sabato, il ragù solo il giovedì e la domenica, la pasta solo a pranzo e potrei continuare. Dal piatto che ci si trova davanti a casa mia (ma la mia famiglia d’origine non è certo un’eccezione) si capisce il giorno della settimana.

Dunque, dicevo della pizza ggialla che si mangia solo a pranzo, specie di lunedì, che è il giorno della  verdura. È di una semplicità disarmante, ma proprio per questo nasconde qualche insidia. Gli ingredienti sono pochissimi. Ma non ci sono dosi: tutto si fa a occhio, “a sentimento” —  ricordando che   in Abruzzese “sentimento” significa insieme “sensibilità” e “intelligenza”; dire di qualcuno (dirlo a qualcuno sarebbe un filo pericoloso per chi lo fa) che non ha manco un po’ di sentimento equivale a dargli dell’ottuso.

Contintuo a divagare. Ecco, gli ingredienti sono questi:

Ingredienti

  • 2 parti di farina di granturco tipo “fioretto” (cioè quella sottile, non quella bramata)
  • 1 parte di farina di grano duro. Non è la semola, bensì la farina: è più sottile. Potete anche farla tutta di granturco, ma con le due farine è migliore. Se avete solo la semola, usate quella. Io uso una tazza da the come unità di misura.
  • sale (quanto basta, e quanto vi piace)
  • acqua
  • olio d’oliva buono

Preparazione

Mescolerete accuratamente le farine e il sale in un bacile. Porrete intanto l’acqua a bollire. La quantità dipende da quella delle farine; per quattro persone (cioè tre tazze da the di farine) io ne metto a bollire circa due litri.

Quando l’acqua bolle in modo intenso, inizierete a versarne nel bacile sulle farine, mescolando con un cucchiaio di legno. Procederete con poca acqua alla volta, riponendo sempre la pentola sul fuoco acceso perché deve essere sempre bollente. Versando e mescolando, otterrete in breve un impasto malleabile. Fermatevi con l’acqua e cercate di impastare anche se non tutta la farina sarà bagnata. Scotta, sì, lo so, ci vorrebbero le mani da contadini che pochi ormai hanno, ma con un po’ di pazienza ci si riesce. Formerete una palla, che schiaccerete ottenendo unaspecie di focaccia alta almeno due dita.

Cottura

La pizza ggialla si cuoce nel camino sotto al coppo che ho spiegato qui.  Ma si cuoce anche al forno, o in padella. Vi spiego l’ultima, la più veloce. Prenderete una padella, la ungerete e la porrete sul fuoco a fiamma viva, meglio se con uno spargifiamma. Quando sarà ben calda, ci porrete dentro la pizza e la lascerete rosolare, fino a quando non sentirete un bel profumo di arrostito e leggerissimamente bruciato. A quel punto girerete la pizza, fancendola rosolare dall’altro lato. Dovrà formarsi una bella crosta croccante.

Quando avrete ottenuto l’effetto, la pizza sarà pronta. Potrete accompagnarla alle verdure in umido (scavando la parte morbida e mescolandola ad esse, e mangiando quella croccante a mo’ di pane), allo stoccafisso in umido, o a quello che vi pare. Funziona benissimo come sostituto del pane, e dura per qualche giorno.

In giorni come questi, quando anche il lievito di birra è un’araba fenice, la pizza ggialla potrà essere, spero, d’aiuto.

 

 

Sono liete, fortunate, (non) dolci, grate

A Regensburg sono arrivato la prima volta in marzo. Era il 1991, e io ero lì per l’ERASMUS. Il semestre invernale era finito da poco, quello estivo sarebbe iniziato solo in aprile; in giro c’erano pochi studenti, quasi tutti avevano approfittato della pausa per tornare dalle famiglie, o per concentrarsi nello studio a casa. Schengen era ancora lontana, e così le prime settimane sono passate tutte tra gli uffici dell’Università, gli uffici comunali per il permesso di soggiorno, che all’epoca richiedeva procedure un filo elaborate, gli uffici del servizio sanitario. Il tutto con l’ansia di non capire molto, cosa che puntualmente si verificava anche perché spesso mi parlavano in dialetto, con l’ansia di dover formulare domande di chiarimento all’impronta, magari con dietro una coda di Bavaresi impazienti, che è proprio un grande aiuto quando annaspi col cervello tra sintassi, casi, preposizioni e lessico, e con l’ansia di dover chiedere mille chiarimenti sui moduli da riempire, cosa che durava sempre molto, perché le parole del gergo giuridico non le sapevo e dovevo sempre ricorrere al vocabolarietto Langenscheidt, che odiavo consultare perché in genere ero sempre impicciato da cappotti in braccio (perché fuori era freddo ma dentro c’erano i Caraibi), zaini, formulari diversi, penne, documenti e chi più ne ha più ne metta, e dovevo aprirlo e cercare la parola con una sola mano e la matita in bocca. In lingua straniera si è più fantozziani che nella propria, sempre.

imageIn una di queste mattine di marzo tedesche e burocratiche a Regensburg, con Carla, la mia collega erasmiana, ci imbattiamo in una bancarella interessante, data l’ora. Erano circa le undici, e il signore dietro al banco, vestito con abito tradizionale, vendeva quelli che a entrambi parevano degli enormi biscotti della nonna. Con un solo anno di differenza, eravamo stati tutti e due  bambini nei ’70, e ricordavamo molto bene quei biscotti dal colore dorato a forma di catena, ricoperti di granella di zucchero. Abbiamo pensato di concederci una seconda colazione con un dolce d’antan, così, volante, spostandoci da un ufficio all’altro. E ci siamo divisi uno di questi biscottoni della nonna; uno solo in due, per non guastarci l’appetito per il pranzo (peraltro normalmente tremendo, nella locale mensa universitaria).

75146936Primo morso:  agghiacciante. Quello che a noi sembrava un biscotto ricoperto di granelli di zucchero era nient’altro che una Brezel, una specie di tarallone salato in superficie col sale grosso da accompagnare alla birra e ai Bratwürsteln. Siamo rimasti senza fiato dalla sorpresa di trovarci in bocca un gusto opposto a quello che atteso (cosa del resto molto frequente in quei giorni, specie nella mensa…), e siamo scoppiati a ridere, rischiando di finire sotto una macchina in una delle stradine del centro (oggi è un’isola stra-pedonale, ma nel 1991 tante cose erano diverse). Alla guida, a uno all’ora, c’era una signora bionda dal viso puntuto, che ci ha guardato malissimo (giustamente), strappando a Carla un sonoro “ce ssi’ bbrutta, signÒra!”, da allora espressione stabile del mio lessico familiare, e poi anche del Pitone (che si interronisce linguisticamente mica male…).

Superato lo shock del salato in luogo del dolce, la Brezel, poi, però, ci era piaciuta. Nei mesi successivi, non so Carla, ma io non perdevo occasione per mangiarne, in tutte le combinazioni possibili: Brezel con la birra, Brezel con i Bratwürsteln (rigorosamente con crauti e l’Händlmaier Senf), o Brezel calde con il burro spalmato sopra (questa è assai porcella, lo so).

imageQualche giorno fa, un blog che seguo sempre con grande piacere, Piatticoitacchi, ha postato la ricetta dei culurgiones sardi. Che mi tentava molto, ma qui, a Vienna, mi metteva un po’ in difficoltà: niente mattarello in casa, niente macchina tirasfoglia (figuriamoci!). Ammesso di riuscire a farli, i culurgiones, mi sarei trovato in ambasce poi anche con il pomodoro per il sugo… Insomma, qui la cucina austrotedescomitteleuropea mi si adatta di più all’ambiente, al mood, al panorama, all’arredamento. E allora ho provato il biscottone della nonna salato: le Brezel, appunto.

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Brezel

RICETTA

Ingredienti:

a) per l’impasto

  • 500 gr di farina 0;
  • 1 panetto di lievito di birra;
  • 1 cucchiaino da the di miele;
  • 10 grammi di sale fino;
  • 50 gr di burro a temperatura ambiente;
  • 250 ml circa di acqua appena tiepida;
  • sale grosso per la guarnitura.

b) per la soluzione alcalina. Sì, lo so, sembra una cosa da laboratorio chimico, ma non conosco una migliore traduzione per il termine Laugenbad (su internet ho trovato persino “lisciva”, vi lascio immaginare). Non spaventatevi, si tratta di acqua leggermente salata con del bicarbonato di sodio. Per quersto servono:

  • 1 litro e mezzo circa d’acqua;
  • una presa di sale grosso;
  • 50 grammi di bicarbonato di sodio.

 

Preparazione:

In un recipiente dalle sponde alte mescolerete bene il sale con la farina, e con questa formerete una fontana, al centro della quale sbriciolerete il panetto di lievito. Sul lievito verserete il cucchiaino di miele e un po’ dell’acqua, impastando velocemente fino a formare un composto liquido (attenzione: non con la farina, ma con lievito, acqua e miele; se poi vi ci scappa un po’ di farina non succede niente). Porrete il recipiente in un luogo caldo e tranquillo per una quindicina di minuti (il classico forno spento e precedentemente appena riscaldato) .

imageIl lievito col miele e l’acqua sarà a questo punto raddoppiato, e potrete procedere all’impasto con tutta la farina e con il burro molle a temperatura ambiente. Impasterete fino ad ottenere una massa omogenea e molto morbida. La riporrete di nuovo nel recipiente, e, coperta con un panno bagnato e strizzato, la rimetterete  nel forno spento e tiepido.

 

In circa una mezz’oretta la massa sarà più che raddoppiata. La impasterete di nuovo per alcuni minuti e la dividerete in tante pallotte come vedete in foto. Ognuna peserà 80/85 grammi, grammo più, grammo meno.

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imageCon le pallotte formerete dei cilindri irregolari: al centro rimarranno più spessi, e le estremità saranno più sottili. Queste verranno poi incrociate, o annodate , se preferite, comunque sempre riattaccate alla parte più spessa. Le lascerete riposare ancora per un quarto d’ora, dando loro il tempo di ricrescere ancora una volta.

 

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Nel frattempo avrete acceso il forno (statico) portandolo a 200°. Avrete pure preparato il bagno alcalino, portando ad ebollizione in una pentola l’acqua con la presa di sale. Quando l’acqua bollirà, allontanerete la pentola dal fuoco, e verserete con molta cautela e un poco alla volta  il bicarbonato. Al contatto col bicarbonato l’acqua inizierà subito a spumeggiare di vivace effervescenza, e, se non sarete accorte/i, il bagno alcalino ve lo farete voi, non le Brezel, quindi occhio!

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Calerete nel bagno alcalino le Brezel una ad una, spingendole verso il fondo con una schiumarola, lasciandole bollire per circa 30 secondi, dopo i quali le scolerete per bene (sempre con la schiumarola),  le porrete su una ramina (per i comuni non-Abruzzesi: una placca) che avrete avuto cura di coprire con carta forno, e le guarnirete da ultimo con del sale grosso (se preferite, potrete usare anche del sesamo, o del papavero, o quello che più vi aggrada). A questo punto le Brezel sono pronte per essere infornate.

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Le cuocerete per una mezz’ora circa, fino a quando non avranno assunto un bel colorito dorato, e risuleranno screziate di crepacci chiari, come si conviene alle Brezel.

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Ecco, le Brezel sono pronte, e sono da consumare ancora un filo calde, cosa che al Pitone non sarebbe affatto dispiaciuta, se fosse stato nei paraggi.

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Allora, se avessi voluto essere filologggico, avrei dovuto arrostirmi dei  Würsteln, accompagnandoli coi crauti,  Händlmaier Senf e birra. E invece il mio pranzo prevedeva asparagi locali (queli buonissimi del Marchfeld, appena fuori città) e, lo confesso, una burrata pugliese. Sì, la burrata a Vienna. Ci avevo solo quella in casa ed era domenica, niente filologggia quindi.

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Ancora un pranzo domenicale senza il Pitone. Con me c’erano però tante Brezel, che hanno forma di catene… Sono liete, fortunate, dolci, grate le catene d’un fido amor!

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Ciomp!

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È nata in mezzo al mare una scarola

È domenica, il Pitone domestico non c’è, e io mi sento un po’ «solo, perduto e abbandonato».  Così, però, non vado da nessuna parte, e la giornata è lunga. C’è persino il sole, c’è. Quindi, inizio a guardare i lati positivi della faccenda. Che ci sono. Il Pitone domestico, infatti, fa la dieta, non mangia i carboidrati. Visto che sono solo, allora, non mi perdo né mi abbandono, ma mi do alla pazza gioia gastronomica coi cibi proibiti. E terroni, giacché ci sto. Metto il cd de La gatta Cenerentola  col volume a palla, e mi scateno:  «E’ nata mmiez’ ‘o mare ‘na scarola»
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La ricetta del giorno è la (terronissima) Pizza di Scarola

Pizza di Scarola

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Ingredienti (per 4 persone)

Per la pasta:

  • 500 gr. di farina 0 (o di quella che usate normalmente per la pizza);
  • 1 cubetto di lievito di birra (si può usare la pasta madre, come faccio in genere io, e come vedrete nelle foto, ma poi mi dite che faccio le ricette troppo difficili, e io sono mooooolto sensibile alle critiche, quindi…);
  • 3 cucchiai di olio extravergine di oliva (io non me metto “adirittura”, si direbbe dalle mie parti; faccio una pasta come per la pizza, ma se volete mettetene anche di più di 3 cucchiai, non guasta certo)
  • sale quanto vi piace (state accorti, il ripieno è saporito, non esagerate, perché potreste pentirvene, passando tutto il giorno, o, peggio, la notte a bere).

Per il ripieno:

  • 2 bei cespi di scarola;
  • 4 spicchi di aglio estiti OPPURE mezza cipolla rossa. E qui veniamo al passo difficile. Gli amici più terroni di me si sentiranno mancare nel vedere menzionata la cipolla, rimproverandomi che nella ricetta tradizionale della Pizza di Scarola ci va solo l’aglio e non la cipolla. Che dire? Con le mie due nonne, una marchigiana, l’altra abruzzese, sono cresciuto in mezzo a due culture culinarie diverse, quella dell’aglio (abruzzese) e quella della cipolla (marchigiana, pure col pesce!!!), e non so davvero decidermi tra le due. Perciò, siccome variatio delectat, vi descrivo qui le due varianti, anzi, una sola, quella con la cipolla;
  • 6 di alici salate;
  • 1 manciata di uva passa (se ce l’avete, la passolina siciliana è l’ideale, ma va bene anche l’uva passa che trovate al supermercato. Non commento, sennò poi già lo so  cosa dite; mi limito a fare un sospiro di rassegnazione);
  • 1 manciata di pinoli;
  • olive schiacciate e condite (quantità a piacere vostro, io stavolta non ne ho messe);
  • capperi  (idem);

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Preparazione

Preparate la pasta per la pizza, e fatela lievitare finché raddoppia il suo volume. Una volta pronta, stendetene una parte in una teglia (che avrete unto e infarinato), tenendo l’altra (parimenti stesa) per la copertura. A me piace stenderla una sola volta, in forma tonda, ribaltandone un lembo sull’altro, così la mia Pizza di Scarola diventa di fatto un Calzone di Scarola. È una possibilità che mi fa risparmiare tempo. Se vi piace…

Mettete la passolina a bagno nell’acqua calda con del vino per farla ammorbidire; a suo tempo la scolerete prima di usarla. Lavate la scarola, lessatela in acqua salata, ma senza farla stracuocere; basterà che si rialzi il bollore, e dopo pochi minuti potete scolarla.  Tritate finemente la cipolla (l’aglio lo lascerete vestito e intero, solo lo schiaccerete), e fatela appassire in una pentola nell’olio a fuoco molto dolce.

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Dopo aver diliscato le alici, e averle sciacquate sotto l’acqua corrente, le farete disfare nella cipolla, sfumando, se volete, con del vino bianco.

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Completato questo passo, alzate la fiamma, mettete la scarola nel soffritto, e fatela insaporire aggiungendo tutti gli altri ingredienti (compresa la la passolina ammorbidita e scolata). Aggiustate di sale. In genere non serve, ché alici e capperi sono già salati, ma fate voi.

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Ungete il fondo della pasta con olio, e metteteci dentro la scarola. Chiudete con la pasta restante (o ricoprite a mo’ di calzone), praticate dei buchi.

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Ungete la superficie con altro olio, che è il vero charme della cucina terrona.

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Cuocete a forno caldo (circa 200°, ma, come dico sempre, ognuno sa i forni suoi), e sfornate quando la Pizza di scarola avrà preso un bel colorito dorato.

20140113_123917252_iOSLo so, l’aspetto è ruspante, molto ruspante. Del resto lo sapete che a me certa cucina piace rough… 😉

«E un e ruje e ttre e quattre…» Nel frattempo La gatta Cenerentola è arrivata al rosario. Può iniziare il baccanale terrone col carboidrato.

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E che il Pitone domestico  faccia pure la sua dieta, altro che «solo, perduto e abbandonato»! Buona domenica! Ciomp!

Cima, Scema e Massaciglia: tre pizze, anzi, una

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Non so più quante volte ho chiesto a mia nonna di farmi la pizza di massaciglia (o pizza cima, o pizza scema). La risposta era sempre la stessa: come ti viene in mente? (Ovviamente lei lo diceva in dialetto: «Agnà te vé ‘mmend?») Non le è mai piaciuto cucinare. Mia nonna ai fornelli faceva tutto bene, ma non era la sua passione. Primogenita di quattro figli, aveva dovuto attendere quattro anni l’arrivo del fratello, che ci avrebbe messo un po’ prima di essere abile al lavoro. A lei, quindi, toccò imparare a lavorare la terra invece di essere cresciuta come una brava massaia. Ancora adesso, con la memoria un poco appannata dai suoi 98 anni, la terra è sempre il suo primo pensiero, e se dimentica per qualche attimo il mio nome o quello di mia cugina o di sua figlia, non dimentica mai di chiedere a suo tempo della vendemmia, della raccolta delle olive o della potatura.

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Sebbene abbia trascorso in campagna molte delle mie estati fino oltre l’inizio della scuola, e in un ambiente non troppo diverso da quello della Figlia di Iorio (e non è una balla!), io la pizza di massaciglia non l’avevo mai né vista né tantomeno assaggiata.

Era stato mio padre a parlarmene, della pizza di massaciglia, quasi per caso, in uno dei suoi tanti racconti di cui sono sempre stato avido sulla sua vita in campagna da bambino e da ragazzo. La pizza di massaciglia, mi diceva, era una pizza non lievitata, cotta nel camino sotto il “coppo” (poi vi spiego, un po’ di pazienza), con cui si faceva colazione la mattina prestissimo, prima di andare a lavorare nei campi.

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Adesso non ricordo quanti anni avessi all’epoca di questo racconto, ma ricordo di essermi sentito privato di qualcosa di speciale, qualcosa che nessuno intorno a me faceva più. In verità questo non era vero. Anni dopo avrei scoperto che solo a casa mia nessuno faceva più la pizza di massaciglia, mentre questa tradizione continuava ad essere coltivata, anche se non ci si alzava più ad ore antelucane e non si andava nei campi. La facevano, anzi, in molti, anche in case di parenti a noi molto vicini, e ancora oggi non mi spiego come io non l’abbia mai mangiata, neanche per caso, fino a tempi recentissimi. Insomma, mi sono sentito come ad un passo dall’arca perduta, e volevo a tutti i costi arrivare a scoprirla. La nonna, però, alle mie richieste rispondeva sempre e solo «no»: è famosa per le sue argomentazioni doviziose.

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Alla fine poi la pizza di massaciglia l’ho fatta. Negli ultimi anni, chiedendo in giro, carpendo mezze parole da prozie carissime e renitenti alle spiegazioni (mia nonna non fa certo eccezione nell’ambiente), ho trovato la ricetta. E oggi vi spiego come si fa la pizza cima, pizza scema o pizza di massaciglia.

Si chiama pizza scema o pizza cima (sua derivazione) perché è una pizza azzima, senza lievito. Potrebbe essere un portato della cucina ebraica in Abruzzo, ma di questo so poco e vi rimando a pagine dove potrete trovare informazioni a riguardo. Più difficile capire perché si chiami ‘di massaciglia’. Forse la parola indica un impasto che resta compatto perché non lievitato, chissà.

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A casa mia, ad ogni modo, si chiama così. Anzi, si chiama «pizz’ de mmassacije», e vi pregherei di chiamarla anche voi così, piuttosto che con l’italianizzazione correttina «pizza di massaciglia». Funziona molto meglio. Converrete, del resto, che dire a qualcuno «i mortacci tuoi!» non è proprio lo stesso che urlargli un sonoro «li mortacci tua!», no?

Nota: dalle mie parti la parola «pizza» indica qualsiasi cosa di forma tonda più larga che alta. Indica la pizza propriamente detta, ma anche altre preparazioni che con questa condividono solo la forma, seppure, come, per esempio, la «pizza dolce», id est torta di pandispagna con crema pasticcera, sappiatelo.

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Pizz’ de mmassacije (o cima o scema)

Ricetta

Ingredienti:

  • 1 Kg di farina. Va bene di cereali di qualsiasi tipo (farro, integrale, miscele fantasiose e così via), ma è meglio non usare la 00. Io uso di preferenza farina di grano duro, ma non è semplice da trovare fuori dall’Abruzzo. Anch’io stavolta ne ho fatto le spese di questa situazione incresciosa per la buona cucina, e ho dovuto usare una farina di ripiego, una semola fine di grano duro. Non c’è niente di sbagliato, ma la consistenza troppo sabbiosa di questa macinatura ha richiesto un aggiustamento degli altri ingredienti.
  • 2 bicchieri di olio extravergine d’oliva;
  • 2 bicchieri di vino (bianco o rosso, non fa troppa differenza; io preferisco usare il rosso);
  • attenzione con le quantità di olio e vino: è necessario che l’impasto sia compatto, ma sempre morbio e quando lo schiacciate si apra ai bordi (segno che l’olio è sufficiente). Quindi: non siate timidi con l’olio e col vino, e ricordatevi che nelle ricette di casa si fa tutto “a sentimento.”
  • sale a piacere.
  • Secondo la versione della nonna e di una mia prozia non si usa il vino, ma solo l’acqua; secondo quella di un’altra prozia e di sua figlia il vino si usa. La pizza viene ugualmente buona anche senza, ma ha una consistenza e un sapore diversi. Scegliete pure la versione che preferite, io preferisco quella col vino.

Preparazione

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Fate una fontana con la farina, e amalgamate lentamente con l’olio, il vino (o solo l’acqua nel caso della seconda versione) e il sale fino a ottenere un impasto morbido e omogeneo. Se vedete che è troppo secco aggiungete un po’ dei tre liquidi, osservando sempre le proporzioni indicate.

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Con l’impasto formate una palla, avvolgetela nella pellicola trasparente o, se siete in vena di raffinatezze da libro di cucina di una volta, in uno strofinaccio. Se scegliete questa opzione, assicuratevi che lo strofinaccio sia stato tessuto a mano, e sia di lino prodotto artigianalmente. Se così non fosse, lasciate perdere, e usate la pellicola, tanto non sareste filologici comunque.

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Una volta compiuta questa operazione, fate riposare l’impasto per una mezz’ora in luogo fresco e tranquillo. Nel frattempo ungete una teglia da forno e infarinatela. Una volta pronto, togliete l’impasto all’involucro, ponetelo nella teglia (o nelle teglie, dipende da quanto è grande la teglia che usate e se cuocete in più riprese), e stendetelo con le mani formando una pizza di un paio di centimetri, suppergiù. Sulla superficie traccerete dei solchi a scacchiera: ogni quadrato (o rombo) dovrà misurare circa 3 centimetri per lato; in ogni quadrato praticherete poi dei fori con una forchetta.

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La ricetta originale prevede la cottura nel camino sotto la cenere (vedi sotto), ma bisogna essere esperti e averci il camino e il “coppo”, perciò se non li avete, usate pure il forno. Cuocete a forno caldo (circa 180°/200° o più, ognuno sa i forni suoi) fino a che la pizza non avrà un bel colore dorato (possono occorrere dalla mezz’ora in su, dipende dal forno). Sfornate, estraete la pizza, e che la festa cominci. Questa pizza è particolarmente adatta ai golosi ansiosi, i cosiddetti ‘pitoni’ che dimorano in ogni casa e che impazziscono all’idea di dover aspettare per gustare le prelibatezze che escono dal forno, loro le ingoierebbero volentieri intere così come sono. Questa pizza mette d’accordo tutti, perché è buona in tutti i modi, bollente, calda o fredda.

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Per la cottura sotto il coppo è necessario aver acceso il fuoco da alcune ore perché la temperatura del camino sia molto calda, e perché ci sia sempre tanta brace a disposizione (per i non abruzzesi: il coppo è un coperchio di ferro di forma circolare e con le sponde alte. Si usa per cuocere vivande nel camino, ponendovi sotto i cibi in una teglia – o anche senza, vedi sotto – ricoprendolo poi di cenere e brace). Prima di preparare l’impasto, scalderete il luogo della cottura ponendo della brace viva sul pavimento della parte del camino in cui metterete la teglia col coppo (se avete un camino di mattoni la teglia non è indispensabile, e adagerete la pizza direttamente sul pavimento del camino; altro che Figlia di Iorio qui!).

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Una volta pronti con l’impasto allontanerete la brace, metterete la teglia nel camino, ponendovi sopra il coppo, circondandolo e coprendolo di cenere e brace (fate attenzione però a non esagerare, altrimenti la pizza, che è sottile, brucerà).

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Il tempo di cottura è circa 40/50 minuti (dipende dal calore del camino).

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Ecco, la pizze’ de mmassacije è pronta!

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Come vi dicevo, nella mia famiglia la pizz’ de mmassacije veniva mangiata a colazione, prima che i miei nonni si recassero nei campi.

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Si accompagnava in genere ai peperoni arrosto, che sono il vero charme delle colazioni raffinate… Io l’ho usata per il pranzo di Natale e quello di san Silvestro, accompagnandola alle più diverse pietanze (anche ai peperoni arrosto), sempre con grande successo (sono modesto, lo sapete).

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