Da bambino non capivo mai bene i testi delle canzoni, delle canzoni italiane intendo. C’erano parole o espressioni che non conoscevo, cosa che capitava spesso – avevo tre, quattro anni al massimo – ma c’erano anche parole che capivo male o a modo mio, e che modificavo in modo il più economico possibile per ricondurle a un minimo di senso compiuto, o che a me pareva tale. Molti anni dopo avrei scoperto che questo è quello che fanno normalmente i filologi con i testi resi irriconoscibili dai danni del tempo. Ero io già filologo precoce o la filologia, come la capacità di galleggiare, è dentro di noi dalla nascita e poi si perde per doverla a fatica reimparare in modo cosciente dopo?
Insomma, i testi delle canzoni li capivo come secondo me avevano senso, e li cantavo come li capivo o li ricostruivo. Cantavo spesso, spessissimo. Lo facevo per intrattenermi quando giocavo da solo (lo faccio anche adesso, anche se non gioco), lo facevo, anzi, lo facevamo insieme ai “grandi”, che nella mia famiglia sono sempre stati canterini. In queste situazioni però, a volte, cascava l’asino: le mie ricostruzioni “filologiche” venivano messe alla prova delle fonti autorevoli che mi facevano fare la figura del piccolo Beckmesser. Una delle più ridicole, anche perché mosse per lungo tempo l’ilarità di tutti, fu la mia versione di “La riva bianca, la riva nera” di Iva Zanicchi, una canzone del 1971.
L’avevo sentita, forse a Canzonissima, e conservo ancora nella memoria anche un’immagine della trasmissione. Mi era piaciuta e la cantavo spesso. Cantavo «però sul fiume passa la frontiera | la liva bianca, la liva nera»: sì, la cantavo così. Non sapevo cosa fosse la frontiera – avevo tre anni – e non vivevo in luoghi in cui ci fosse dimestichezza con i corsi d’acqua. C’era e c’è solo il mare, ma quello di riva ne aveva visibilmente una sola. La «riva» per me non significava nulla, nulla almeno che avesse una sua controparte, qualcosa di simile e opposto insieme. Ce l’aveva invece «la liva», «la liv’», come in famiglia tutti chiamavamo «le olive» che noi e i nostri parenti coltivavamo (e coltiviamo), parlando in dialetto o in un Italiano (molto) regionalizzato. La «la liva» sì era o bianca o nera, e il confronto tra le due poteva essere drammatico come quello tra le «live» della canzone, anche se non c’era per questo bisogno della frontiera, che per me, comunque, allora non significava nulla: secondo il lessico filologico era cioè una crux desperationis, una corruttela grave e non sanabile. «La liva bianca» era quella buona, che a me piaceva ssai; «la liva nera», invece, quella cattiva. Era amara, e non mi piaceva per niente. Con la «liva» cantata al posto della «riva», il conflitto tra le rive fatali diveniva qualcosa di finalmente comprensibile, per me altrettanto fatale, perché concreto ed esperito tutte le volte che mi avevano detto di mangiare le olive nere. «La liva bianca, la liva nera» finì per essere uno dei tormentoni buffi della mia infanzia.
La «liva nera», quella vera, invece sarebbe sparita presto. Nel senso che avremmo fatto sempre uso (parco, ad esere onesti) di olive nere, ma «comprate» nonostante le olive le coltivassimo noi. Come i flash in bianco e nero di Iva Zanicchi, ho alcuni falsh, ma a colori, di grandi barattoli di «liva nera» che giravano per casa, per lo più nelle dispense, con dentro granelli di sale grosso e frammenti di buccia d’arancia. Ma sono spariti presto, da me punto rimpianti, visto che le olive nere sono rientrate nel mio orizzonte gastronomico solo molti anni dopo.
Lo scorso novembre ero a Lucca, un sabato pomeriggio. Lì da un fruttivendolo ottimo del centro ho trovato le olive nere che un cartello diceva «amare», e così ho provato a fare le olive col sale grosso e le bucce d’arancia, che ricordavo. Ho fatto una navigata su internet e poi ho fatto di testa mia. Poi mia zia mi ha confermato che era proprio quello che faceva la nonna. Si sa, i bravi filologi ricostruiscono i testi con ipotesi che poi nuove scoperte confermano come “giuste”, se non additittura “autentiche”. E scusate se è poco.
Olive nere sotto sale
ingredienti
- olive nere (cioè mature. Anni fa il Pitone – quoque! – mi chiese se in Abruzzo avessimo piante di olive verdi o nere, pensando che le olive fossero come l’uva. Non ho spauto frenarmi e sono scoppiato a ridere, e l’ho preso in giro per anni: non credevo che una domanda del genere fosse neppure pensabile. Ecco, che non vi vengano strane curiosità, solo questo);
- sale grosso;
- buccia di arance (non trattate) e di limoni (idem);
- spezie (a piacere; io ho usato: semi di finocchio, lauro, origano, maggiorana, timo, lavanda, tutte tritate finemente, tranne i semi di finocchio, che ho lasciato interi).
preparazione
Laverete le olive e le asciugherete con cura. Quando saranno asciutte, le porrete a strati in un barattolo capiente, alternandole con strati di sale,. buccia di agrumi e spezie. Procederete così fino a quando raggiungerete l’ultimo strato di sale e spezie.
Chiuderete il barattolo con uno strofinaccio e lo porrete in un luogo della casa non troppo riscaldato. Nel giro di qualche giorno, per effetto del sale le olive cominceranno a tirare fuori liquido. A questo punto toglierete lo strofinaccio, chiuderete il barattolo, e lo rovescerete, lasaciandolo a testa in giù per qualche ora. Poi ri rimetterete in posizione dritta e lo agiterete qualche volta.
Continurete ad capovolgere e agitare il barattolo quante volte vi sarà possibile. Lo farete per circa due settimane, fino quando cioè alla prova assaggio capirete che le olive hanno perso del tutto l’amaro.
A questo punto prenderete le olive mondandole del sale in eccesso (non, se possibile, delle spezie e le bucce degli agrumi, che anzi, mondate del sale in eccesso, terrete da parte) con l’aiuto di un colapasta dalle maglie non troppo fitte e le porrete in un bacile con le bucce. Qui le condirete con un po’ d’olio extravergine di oliva, mescolandole con attenzione.
Una vola condite e mescolate, metterete le olive in barattoli di vetro, e le conserverete a) in una cantina fredda; b) in frigorifero (come me, che non ho una cantina fredda).
Ecco, la «liva nera» è pronta per il consumo. E sarà buonissima: non salata e ricca di aromi.
Ciomp!