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La liva bianca, la liva nera

Da bambino non capivo mai bene i testi delle canzoni, delle canzoni italiane intendo. C’erano parole o espressioni che non conoscevo, cosa che capitava spesso – avevo tre, quattro anni al massimo – ma c’erano anche parole che capivo male o a modo mio, e che modificavo in modo il più economico possibile per ricondurle a un minimo di senso compiuto, o che a me pareva tale. Molti anni dopo avrei scoperto che questo è quello che fanno normalmente i filologi con i testi resi irriconoscibili dai danni del tempo. Ero io già filologo precoce o la filologia, come la capacità di galleggiare, è dentro di noi dalla nascita e poi si perde per doverla a fatica reimparare in modo cosciente dopo?

Insomma, i testi delle canzoni li capivo come secondo me avevano senso, e li cantavo come li capivo o li ricostruivo. Cantavo spesso, spessissimo. Lo facevo per intrattenermi quando giocavo da solo (lo faccio anche adesso, anche se non gioco), lo facevo, anzi, lo facevamo insieme ai “grandi”, che nella mia famiglia sono sempre stati canterini. In queste situazioni però, a volte, cascava l’asino: le mie ricostruzioni “filologiche” venivano messe alla prova delle fonti autorevoli che mi facevano fare la figura del piccolo Beckmesser. Una delle più ridicole, anche perché mosse per lungo tempo l’ilarità di tutti, fu la mia versione di “La riva bianca, la riva nera” di Iva Zanicchi, una canzone del 1971.

L’avevo sentita, forse a Canzonissima, e conservo ancora nella memoria anche un’immagine della trasmissione. Mi  era piaciuta e la cantavo spesso. Cantavo  «però sul fiume passa la frontiera | la liva bianca, la liva nera»: sì, la cantavo così. Non sapevo cosa fosse la frontiera – avevo tre anni – e non vivevo in luoghi in cui ci fosse dimestichezza con i corsi d’acqua. C’era e c’è solo il mare, ma quello di riva ne aveva visibilmente una sola. La «riva» per me non significava nulla, nulla almeno che avesse una sua controparte, qualcosa di simile e opposto insieme. Ce l’aveva invece «la liva», «la liv’», come in famiglia tutti chiamavamo «le olive» che noi e i nostri parenti coltivavamo (e coltiviamo), parlando in dialetto o in un Italiano (molto) regionalizzato. La «la liva» sì era o bianca o nera, e il  confronto tra le due poteva essere drammatico come quello tra le «live» della canzone, anche se non c’era per questo bisogno della frontiera, che per me, comunque, allora non significava nulla: secondo il lessico filologico era cioè una crux desperationis, una corruttela grave e non sanabile. «La liva bianca» era quella buona, che a me piaceva ssai; «la liva nera», invece, quella cattiva. Era amara, e non mi piaceva per niente. Con la «liva» cantata al posto della «riva», il conflitto tra le rive fatali diveniva qualcosa di finalmente comprensibile, per me altrettanto fatale,  perché concreto ed esperito tutte le volte che mi avevano detto di mangiare le olive nere. «La liva bianca, la liva nera» finì per essere uno dei tormentoni buffi della mia infanzia.

La «liva nera», quella vera, invece sarebbe sparita presto. Nel senso che avremmo fatto sempre uso (parco, ad esere onesti) di olive nere, ma «comprate» nonostante le olive le coltivassimo noi. Come i flash in bianco e nero di Iva Zanicchi, ho alcuni falsh, ma a colori, di grandi barattoli  di «liva nera» che giravano per casa, per lo più nelle dispense, con dentro granelli di sale grosso e frammenti di buccia d’arancia. Ma sono spariti presto, da me punto rimpianti, visto che le olive nere sono rientrate nel mio orizzonte gastronomico solo molti anni dopo.

Lo scorso novembre ero a Lucca, un sabato pomeriggio. Lì da un fruttivendolo ottimo del centro ho trovato le olive nere che un cartello diceva «amare», e così ho provato a fare le olive col sale grosso e le bucce d’arancia, che ricordavo. Ho fatto una navigata su internet e poi ho fatto di testa mia. Poi mia zia mi ha confermato che era proprio quello che faceva la nonna.  Si sa, i bravi filologi ricostruiscono i testi con ipotesi che poi nuove scoperte confermano come “giuste”, se non additittura “autentiche”. E scusate se è poco.

Olive nere sotto sale

ingredienti

  • olive nere (cioè mature. Anni fa il Pitone – quoque! – mi chiese se in Abruzzo avessimo piante di olive verdi o nere, pensando che le olive fossero come l’uva. Non ho spauto frenarmi e sono scoppiato a ridere, e l’ho preso in giro per anni: non credevo che una domanda del genere fosse neppure pensabile. Ecco, che non vi vengano strane curiosità, solo questo);
  • sale grosso;
  • buccia di arance (non trattate) e di limoni (idem);
  • spezie (a piacere; io ho usato: semi di finocchio, lauro, origano, maggiorana, timo, lavanda, tutte tritate finemente, tranne i semi di finocchio, che ho lasciato interi).

preparazione

Laverete le olive e le asciugherete con cura. Quando saranno asciutte, le porrete a strati in un barattolo capiente, alternandole con strati di sale,. buccia di agrumi e spezie. Procederete così fino a quando raggiungerete l’ultimo strato di sale e spezie.

Chiuderete il barattolo con uno strofinaccio e lo porrete in un luogo della casa non troppo riscaldato. Nel giro di qualche giorno, per effetto del sale le olive cominceranno a tirare fuori liquido. A questo punto toglierete lo strofinaccio, chiuderete il barattolo, e lo rovescerete, lasaciandolo a testa in giù per qualche ora. Poi ri rimetterete in posizione dritta e lo agiterete qualche volta.

Continurete ad capovolgere e agitare il barattolo quante volte vi sarà possibile. Lo farete per circa due settimane, fino quando cioè alla prova assaggio capirete che le olive hanno perso del tutto l’amaro.

A questo punto prenderete le olive mondandole del sale in eccesso (non, se possibile, delle spezie e le bucce degli agrumi, che anzi, mondate del sale in eccesso, terrete da parte) con l’aiuto di un colapasta dalle maglie non troppo fitte e le porrete in un bacile con le bucce. Qui le condirete con un po’ d’olio extravergine di oliva, mescolandole con attenzione.

Una vola condite e mescolate, metterete le olive in barattoli di vetro,  e le conserverete a) in una cantina fredda; b) in frigorifero (come me, che non ho una cantina fredda).

Ecco, la «liva nera» è pronta per il consumo. E sarà buonissima: non salata e ricca di aromi.

Ciomp!

Affiorano grassi ricordi | di un pranzo di nozze che fu

Al ristorante si andava solo per i matrimoni. Anzi, per gli sposalizi, come usava chiamarli allora. Erano gli anni Settanta, io ero un bambino, e quelle erano le uniche occasioni in cui si andasse tutti al ristorante. In linea teorica ci sarebbero state anche le comunioni, è vero. Ma per me sono arrivate qualche anno dopo gli sposalizi: le cugine e i cugini erano di poco più vecchi o più giovani di me, nessuno quindi ancora in età, pertanto all’epoca si mangiava fuori soprattutto per le nozze, quelle delle cugine di mio padre e di mia madre, delle loro cugine e cugini di secondo grado, di parenti di cui solo adesso, e con l’aiuto di un grafico, riesco a capire il grado di parentela, per dimenticarlo dopo neanche cinque minuti. Di parenti ce n’erano in quantità, da parte sia di padre sia di madre, e poi c’erano altre relazioni familiari ataviche (comparizie, commarizie, amicizie, mezzadrie), di cui io bambino non avevo idea, ma che richiedevano la nostra inderogabile presenza.

A me gli sposalizi piacevano assai. Bisognava sorbirsi la messa, però poi si andava al ristorante, e, quando i parenti erano stretti, spesso a seguire anche al ricevimento. Ai pranzi di nozze si iniziava con portate esotiche come “l’antipasto”, c’erano sempre a disposizione bibite concesse in genere col contagocce come la gassosa, venivano servite quantità sfacciate di dolci e addirittura ti riprendevano se facevi lo sgarbo di non accettarne (erano sempre fatti in casa, e la mamma della sposa o dello sposo ti avrebbe incenerito alla prima avvisaglia di un possibile gesto di rifiuto). Insomma, per me bambino era una pacchia.

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Negli anni Settanta il tradizionale pranzo di nozze provava, almeno dalla mie parti, iniziali sintomi di modernità. Le prime novità furono cose non mai udite come i tortellini con la panna, che mi folgorarono in un pranzo nel 1973, quando per la prima volta scoprii che la pasta ripiena poteva non avere un sugo rosso, e che “in bianco” non era per forza sinonimo di cibo per il post-maldipancia. Oppure rivoluzioni assolute come il pranzo a buffet, che fece insieme sensazione e scandalo alle nozze della cugina di mia madre nel 1974, quando alcuni degli invitati non nascosero il proprio abruzzese disappunto di fronte all’assenza del servizio al tavolo. A parte le trovate “moderne”, restavano comunuqe molti punti fissi, che solo il decennio successivo avrebbe scalzato in via definitiva: era sempre un banchetto “di carne”, e prevedeva un menù che, con poche variazioni, recava ancora tracce di costumi ottocenteschi, di quelli descritti per esempio nel Gattopardo o da Matilde Serao, nel suo insuperato Saper vivere.

Risultati immagini per saper vivere norme di buona creanza

Un pranzo di nozze iniziava invariabilmente con un antipasto di salumi, formaggio e olive. Proseguiva con del brodo con la pizza rustica, o con un consommé a cui faceva seguito la galantina di pollo (che era servita per fare il brodo) insieme al lesso (come sopra). Poi le lasagne (“la sagna”, da noi), o, nei pranzi più rustici, la pasta alla chitarra al ragoût (non quello con il macinato, ma con il ragoût detto “napoletano”), che proprio negli anni Settanta e per nozze più evolute iniziavano ad essere sostituiti dal tris di primi. Dopo la portata di pasta era il turno del pollo, poi della carne rossa ai ferri o al forno con contorno di patate e di insalata. A queste poteva seguire o meno la prochetta. Nei pranzi di campagna, il dessert era in genere una semplice macedonia di frutta con o senza gelato, che preparava alla torta e ai dolci; in quelli cittadini la torta e i dolci erano preceduti da squisitezze antiche, come la Pesca Melba (da me adoratissima), che sulle tavole non proviciali erano state ormai abbandonate già da alcuni decenni.

Gli anni Ottanta sono stati una cesura rispetto a tutto questo. Il pesce ha sostituito la carne in via pressoché definitiva, e gli antipasti hanno preso il sopravvento, riducendo le altre portate a un interminabile, molesto intermezzo: si è satolli da un pezzo, ma andare via prima della torta proprio non si può, pare brutto.

Qualche tempo fa mi chiedevo che fine avesse fatto la Galantina di pollo. Stavo col pensiero di un piatto sparito dalla (mia) vista, ma che era invece una presenza ricorrente e sempre gradita dei banchetti di nozze di una volta. Ne ho trovata la ricetta, e l’ho rifatta. E poi ho capito il perché della sua sparizione. Non vi anticipo nulla, vi sarà tutto presto chiaro.

Galantina di pollo

Ingredienti (per un numero di persone imprecisato, tanto non la farete mica per voi soli, la Galantina; e seppure la faceste, dopo tutta la fatica che avrete fatto, non ne vorrete certo fare un’altra la settimana successiva):

  •  un pollo (il mio era ruspante, e pesava circa due chili. Vi consiglio di procurarvene uno sempre ruspante ma più piccolo, capirete dopo perché);
  •  600 g. circa di carne di manzo macinata;
  •  1 o 2 salsicce;
  •  150 g. circa di prosciutto crudo tagliato a fette sottili;
  •  300 g. circa di parmigiano e pecorino grattugiati;
  •  2 o 3 uova intere freschissime;
  •  1 carota;
  •  1 costa di sedano;
  •  foglie di prezzemolo;
  •  alcune olive verdi e nere;
  •  Marsala secco (un bicchierino);
  •  sale, pepe, noce moscata.

Preparazione:

chiederete al macellaio di disossarvi il pollo. È una operazione molto delicata, che solo pochi ormai sanno portare a termine in modo impeccabile: dovrete fare di necessità virtù.

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Dunque, riprendiamo. Salerete leggermente l’interno del pollo, foderandolo successivamente con le fette di prosciutto. Su queste porrete il macinato di manzo che avrete anch’esso leggermente salato, pepato, condito con una spolverata di noce moscata e amalgamato per bene con i formaggi grattugiati, aggiungendo un bicchierino di Marsala secco e qualche foglia di prezzemolo.

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Su questa base porrete poi la salsiccia (che avrete avuto cura di far cuocere per una mezz’ora con acqua e vino bianco), le uova sode e sbucciate, le olive denocciolate, la costa di sedano (privata dei fili) e la carota fatti a filetti (e disposti in senso longitudinale). A piacere aggiungerete dei pistacchi.

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Chiuderete i lembi del pollo, e, aiutandovi con un ago da pelle, filo e un ditale, li cucirete, facendo molta attenzione a non lasciare buchi. Ecco, si tratta di un’operazione delicata. Se il macellaio ha fatto un buon lavoro non sarà (troppo) difficile, altrimenti occorrerà essere pazienti: il grasso della pelle del pollo farà scivolare le vostre mani che non faranno presa sull’ago, e l’ago resterà a metà cucitura, senza andare più né avanti né indietro; la pelle del pollo tenderà a strapparsi, e altre amenità apripista di molte esclamazioni volgari.

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Qui c’era mia madre, che ha saputo risolvere una situazione disperata: il pollo era di due chili, ed era stato disossato malissimo, e di conseguenza era difficilissimo da ricomporre con ago e filo. La volta precedente c’era il Pitone, che, smadonnando durante la cucitura, mi ha intimato di bandire per sempre la Galantina dalla nostra cucina. Infatti quella che vi racconto è stata fatta a 500 Km di distanza.

Dovrete dare al tutto una forma tondeggiante e allungata, come un arrorsto ciccione. La nostra Galantina, date le dimensioni originarie del pollo e le difficoltà di cui sopra, alla fine aveva un’estetica discutibile, e pareva uscita da un film “de paura” di Carpenter, piuttosto che da una cucina festiva.

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Una volta terminata la cucitura, legherete con lo spago il tutto e porrete a cuocere a fuoco dolce insieme in acqua bollente in cui avrete messo a freddo ossi, sedano, carota, cipolla, qualche pomodorino “di Pechino” (come dicea una mia prozia megera ma carissima), cannella, chiodi di garofano e buccia di limone, insomma, come fareste con la carne da brodo. La Galantina dovrà cuocere per circa un’ora, un’ora e mezza (il tempo dipende anche dal suo diametro).

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Una volta cotta, lascerete raffreddare la Galantina nel suo brodo. Poi la scolerete e la porrete in frigorifero tenendola coperta per un giorno. Solo a questo punto potrete procedere ad affettarla. Al taglio si scopriranno le inaspettate composizioni che avranno formato i vari ingredienti del ripieno, con diversa armonia di colori e testure. Che poi faranno la delizia del palato, quando gusterete la Galantina come piatto di mezzo dopo una pietanza in brodo o un consommé, o, seguendo la moda del giorno, tra gli antipasti, sorprendendo i vostri ospiti con un sapore nuovo, cioè antico.

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Chiù! cioè, Ciomp!

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Culta placent

Alla fine di ottobre in casa potevano succedere cose strane.  Una succedeva tutti gli anni, l’altra meno di frequente. La prima: per la notte del 31 ottobre mia nonna accendeva dei lumini che avrebbero dovuto ardere initerrottamente per i due giorni seguenti. Erano il modo tradizionale di ricordare i cari defunti, insieme segno della memoria e gesto propiziatorio caratteristico di una cultura contadina (quella della famiglia paterna) che la nonna perpetuava anche se ormai si viveva in paese, e occuparsi della terra era un’attività collaterale per le generazioni più giovani. In questo rinnovellamento dei riti ancestrali, però, non sempre andava tutto liscio. Infatti, a trapiantare codesti riti delle campagne nella vita moderna, pur senza il provebiale suo logorio, si producevano spesso alcuni “incommodi” di cui gli stessi riti cadevano inevitabilmente vittime, a volte con risvolti buffi. Dunque, mia madre non aveva nulla da obiettare al rispetto di una tradizione così radicata e significativa, anzi. Aveva però posto un moderno e ragionevole veto alle fiamme libere e incustodite anche di notte, anche nei momenti in cui in casa non c’era nessuno. A furia di lumini sì, lumini no, il compromesso alla fine fu: la vasca da bagno. Sì, i lumini ardevano liberi e indisturbati in bagno, diffondendo bagliori tremolanti di colore rosso sulle superfici lucide del bidet, dei rubinetti cromati, sui flaconi della lacca Cadonette (erano gli anni ’70), sui barattoli di Flore Bath. E quando ci si alzava per le veloci e assonnate sedute notturne, aprendo la porta del bagno il sussulto con  brivido era assicurato, anche allora, quando Halloween lo vedevamo solo nei film (e senza capirne bene il perché, quando invece pure da noi si facevamo da sempre cose analoghe).

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L’altra: ogni tanto, intorno alla fine di ottobre sul pianerottolo faceva la sua comparsa un secchio con olive verdi immerse nell’acqua. Le olive curate, così si chiamavano. Se ne occupava mia nonna, manco a dirlo; era lei a curarle. Per queste non c’erano brividi, né sussulti, né risvolti buffi; solo l’attesa, che a me pareva non finire mai, perché le olive diventassero finalmente commestibili. Erano le olive di una nostra pianta, l’unica di olive da tavola. Non ne ho mai saputo il nome, di questa varietà. Sentivo parlare di olive cucche (“liva cucc'”), più di recente di olive ‘ndosse. Poi ho scoperto che quest’ultimo è il nome della preparazione, non della varietà di olive. Mah. Ad ogni modo, queste erano le uniche olive verdi da tavola che girassero in casa. C’erano solo una volta all’anno, in questo periodo.

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A me queste olive piacevano assai. Perché non erano salate, e perché sapevano di olive, come non succedeva – e anche adesso non succede – (quasi) mai con quelle commerciali, spesso lamentevoli, se non peggio. La pianta di olive da tavola poi però ad un certo punto non ha prodotto più olive, o è stata tagliata perché irrimediabilmente danneggiata dalle nevicate nell’inverno dell’85. Non ricordo: all’epoca godevo degli effetti della campagna senza farmi troppe domande sulle cause. In ogni caso, le olive hanno smesso di essere curate. Tutti dicevamo sempre che buone come quelle non ce n’erano, ma nessuno mai le curava. In effetti, se la pianta non c’era più, sarebbe bastato comprarle, le olive da curare. Non a casa mia, però: finita la pianta, finite le olive. Punto.

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Qualche anno fa ero in Abruzzo verso la fine di ottobre,  del tutto fuori stagione per le mie abitudini. Ero lì per lavoro, e ne ho approfittato per fermarmi qualche giorno dai miei, nel periodo in cui le olive sono pronte per essere raccolte e curate. E in cui la campagna produce tra i suoi frutti migliori. Insomma, sono tornato a casa con la valigia colma: melograni, uva, noci, castagne, olio nuovo appena appena spremuto, e poi dolci vari ricevuti in dono (anche dalle prozie, sempre apprensive della mia prossima denutrizione lassù al Nord), vari contenitori con pesce e verdure cucinati da mia madre, una forma di ricotta fresca e una cassetta di olive verdi. Faccio presente che viaggiavo in treno. Al Pitone è venuto un colpo quando mi ha visto: lui già vedeva il caos in cucina che avrebbe potuto far seguito alle mie preparazioni.

imageDunque, mi era venuto l’uzzolo di tornare io a curarle, le olive. La cucina delle ricette perdute, sì,  forse è proprio questa la cucina che più mi incuriosisce. In fondo curare le olive è cosa molto semplice. Lo dico per le amiche devote ai tortellini in busta. Ma tanto lo so che è inutile, e che loro non abbandoneranno mai la loro religione. Vabbe’. Comunque il Pitone si è molto rassicurato, quando ha visto che curare le olive era un giochetto da ragazzi (e pulito e ordinato) rispetto alle Nevole.

Olive curate

Ingredienti:

  • olive verdi da tavola, di varietà e quantità a piacere;
  • soda caustica: 25 gr per ogni Kg di olive;
  • acqua;
  • tempo.

Preparazione:

Laverete per bene le olive in abbondante acqua fredda, risciacquandole tre o quattro volte. In un bicchiere capiente (di vetro, di ceramica o di plastica, ma non di metallo) scioglierete la soda caustica con acqua a temperatura ambiente. Farete molta attenzione, poiché la soda è irritante e andrà maneggiata con cautela. image

Verserete le olive in un recipente capiente (di vetro, ceramica o plastica, vedi sopra) ricoprendole di acqua fredda. Nell’acqua verserete subito la soda disciolta, e mescolerete energicamente con un cucchiaio di legno/plastica (purché non di metallo, come tutti i recipienti finora menzionati), fino a quando la soluzione non si sarà mescolata per bene all’acqua delle olive.

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Farete riposare le olive per almeno 10 ore, rimestandole di quando in quando. L’acqua diventerà scura di un color rossiccio: non preoccupatevi, è quello che deve accadere. Trascorse le 10 ore, le olive dovrebbero essere pronte. Lo capirete provando a staccare col pollice la polpa dal nocciolo, se si stacca senza troppa resistenza sono pronte, altrimenti attendete ancora qualche ora. Se userete le olive tipo “Cerignola” i tempi potrebbero allungarsi fino alle 24 ore. Farete molta attenzione all’ora in cui iniziate il precedimento. Il consiglio è di iniziare la mattina di buon ora, se no non potrete andare a letto in attesa che le olive si curino al punto giusto. Qualora lasciaste le olive nel bagno di soda oltre il tempo necessario, esse diventeranno molli e avreste fatto meglio e prima a comprare quelle (salate) del supermercato. Quindi: cervello!

imageA questo punto inizierete i risciacqui: scolerete le olive, ricoprendole di acqua fredda, e ripetendo l’operazione almeno un paio di volte al giorno, fino a quando l’acqua non ridiventa limpida. Ocorrerà all’incirca una settimana, giorno più, giorno meno.

imageAdesso le olive saranno pronte. Potrete gustarle subito, cospargendole con un filo di sale,  come piace a me, oppure, se gradite, aggiungendo, oltre al sale, delle  spezie e magari dell’olio (per esempio semi di finocchio, peperoncino, aglio a fettine e olio). Le olive curate le conserverete così, con acqua salata in frigorifero per alcuni mesi. Altrimenti le metterete in salamoia in barattolo. Ma qui non saprei dirvi quale ricetta seguire, visto che non ne ho ancora trovata una che mi soddisfi (vengono sempre troppo salate, uffa!).

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P.S. Curare le olive in Lombardia. Per fortuna, qui in Lombardia, ho individuato i fruttivendoli giusti, quelli che ti procurano anche i germogli freschi di baobab, se serve (il Pitone li chiama “gli amichetti tuoi”). Ho prenotato da loro le olive verdi, specificando che non volevo le “Cerignola”. Alla settimana prossima, mercoledì, mi dicono. Torno quel mercoledì, appena sceso dal treno. Ci dispiace, mi dicono, ma abbiamo trovato solo quelle che non voleva. Torni venerdì. Che anzia! Avevo contato i giorni al millimetro. E con le olive al mercoledì ci sarei stato dentro, forse, col bagno di soda caustica e i risciacqui, ma con le olive al venerdì certamente no. E chi mai mi avrebbe cambiato l’acqua, chi mi vrebbe rimestato le olive se poi il lunedì in casa non ci sarebbe rimasto nessuno, nemmeno il Pitone (ancorché definito domestico)? Ho dovuto organizzare un servizio di babysitteraggio delle olive, lasciando biglietti, scrivendo raccomandazioni su risciacqui, rimestaggi, temperature ecc. , avvisando potenziali secondi cast nel caso di defezioni dell’ultimo minuto. Nonziamai che dopo tanta fatica… Alla fine, nonostante le anzie, tutto ha funzionato. Le olive sono state curate anche quest’anno. Ah,  gli amichetti miei me ne hanno procurate proprio di ottime.

Ciomp!

imageAh, poi ho anche acceso i lumini nella vasca, così, giacché c’ero.

Sono liete, fortunate, (non) dolci, grate

A Regensburg sono arrivato la prima volta in marzo. Era il 1991, e io ero lì per l’ERASMUS. Il semestre invernale era finito da poco, quello estivo sarebbe iniziato solo in aprile; in giro c’erano pochi studenti, quasi tutti avevano approfittato della pausa per tornare dalle famiglie, o per concentrarsi nello studio a casa. Schengen era ancora lontana, e così le prime settimane sono passate tutte tra gli uffici dell’Università, gli uffici comunali per il permesso di soggiorno, che all’epoca richiedeva procedure un filo elaborate, gli uffici del servizio sanitario. Il tutto con l’ansia di non capire molto, cosa che puntualmente si verificava anche perché spesso mi parlavano in dialetto, con l’ansia di dover formulare domande di chiarimento all’impronta, magari con dietro una coda di Bavaresi impazienti, che è proprio un grande aiuto quando annaspi col cervello tra sintassi, casi, preposizioni e lessico, e con l’ansia di dover chiedere mille chiarimenti sui moduli da riempire, cosa che durava sempre molto, perché le parole del gergo giuridico non le sapevo e dovevo sempre ricorrere al vocabolarietto Langenscheidt, che odiavo consultare perché in genere ero sempre impicciato da cappotti in braccio (perché fuori era freddo ma dentro c’erano i Caraibi), zaini, formulari diversi, penne, documenti e chi più ne ha più ne metta, e dovevo aprirlo e cercare la parola con una sola mano e la matita in bocca. In lingua straniera si è più fantozziani che nella propria, sempre.

imageIn una di queste mattine di marzo tedesche e burocratiche a Regensburg, con Carla, la mia collega erasmiana, ci imbattiamo in una bancarella interessante, data l’ora. Erano circa le undici, e il signore dietro al banco, vestito con abito tradizionale, vendeva quelli che a entrambi parevano degli enormi biscotti della nonna. Con un solo anno di differenza, eravamo stati tutti e due  bambini nei ’70, e ricordavamo molto bene quei biscotti dal colore dorato a forma di catena, ricoperti di granella di zucchero. Abbiamo pensato di concederci una seconda colazione con un dolce d’antan, così, volante, spostandoci da un ufficio all’altro. E ci siamo divisi uno di questi biscottoni della nonna; uno solo in due, per non guastarci l’appetito per il pranzo (peraltro normalmente tremendo, nella locale mensa universitaria).

75146936Primo morso:  agghiacciante. Quello che a noi sembrava un biscotto ricoperto di granelli di zucchero era nient’altro che una Brezel, una specie di tarallone salato in superficie col sale grosso da accompagnare alla birra e ai Bratwürsteln. Siamo rimasti senza fiato dalla sorpresa di trovarci in bocca un gusto opposto a quello che atteso (cosa del resto molto frequente in quei giorni, specie nella mensa…), e siamo scoppiati a ridere, rischiando di finire sotto una macchina in una delle stradine del centro (oggi è un’isola stra-pedonale, ma nel 1991 tante cose erano diverse). Alla guida, a uno all’ora, c’era una signora bionda dal viso puntuto, che ci ha guardato malissimo (giustamente), strappando a Carla un sonoro “ce ssi’ bbrutta, signÒra!”, da allora espressione stabile del mio lessico familiare, e poi anche del Pitone (che si interronisce linguisticamente mica male…).

Superato lo shock del salato in luogo del dolce, la Brezel, poi, però, ci era piaciuta. Nei mesi successivi, non so Carla, ma io non perdevo occasione per mangiarne, in tutte le combinazioni possibili: Brezel con la birra, Brezel con i Bratwürsteln (rigorosamente con crauti e l’Händlmaier Senf), o Brezel calde con il burro spalmato sopra (questa è assai porcella, lo so).

imageQualche giorno fa, un blog che seguo sempre con grande piacere, Piatticoitacchi, ha postato la ricetta dei culurgiones sardi. Che mi tentava molto, ma qui, a Vienna, mi metteva un po’ in difficoltà: niente mattarello in casa, niente macchina tirasfoglia (figuriamoci!). Ammesso di riuscire a farli, i culurgiones, mi sarei trovato in ambasce poi anche con il pomodoro per il sugo… Insomma, qui la cucina austrotedescomitteleuropea mi si adatta di più all’ambiente, al mood, al panorama, all’arredamento. E allora ho provato il biscottone della nonna salato: le Brezel, appunto.

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Brezel

RICETTA

Ingredienti:

a) per l’impasto

  • 500 gr di farina 0;
  • 1 panetto di lievito di birra;
  • 1 cucchiaino da the di miele;
  • 10 grammi di sale fino;
  • 50 gr di burro a temperatura ambiente;
  • 250 ml circa di acqua appena tiepida;
  • sale grosso per la guarnitura.

b) per la soluzione alcalina. Sì, lo so, sembra una cosa da laboratorio chimico, ma non conosco una migliore traduzione per il termine Laugenbad (su internet ho trovato persino “lisciva”, vi lascio immaginare). Non spaventatevi, si tratta di acqua leggermente salata con del bicarbonato di sodio. Per quersto servono:

  • 1 litro e mezzo circa d’acqua;
  • una presa di sale grosso;
  • 50 grammi di bicarbonato di sodio.

 

Preparazione:

In un recipiente dalle sponde alte mescolerete bene il sale con la farina, e con questa formerete una fontana, al centro della quale sbriciolerete il panetto di lievito. Sul lievito verserete il cucchiaino di miele e un po’ dell’acqua, impastando velocemente fino a formare un composto liquido (attenzione: non con la farina, ma con lievito, acqua e miele; se poi vi ci scappa un po’ di farina non succede niente). Porrete il recipiente in un luogo caldo e tranquillo per una quindicina di minuti (il classico forno spento e precedentemente appena riscaldato) .

imageIl lievito col miele e l’acqua sarà a questo punto raddoppiato, e potrete procedere all’impasto con tutta la farina e con il burro molle a temperatura ambiente. Impasterete fino ad ottenere una massa omogenea e molto morbida. La riporrete di nuovo nel recipiente, e, coperta con un panno bagnato e strizzato, la rimetterete  nel forno spento e tiepido.

 

In circa una mezz’oretta la massa sarà più che raddoppiata. La impasterete di nuovo per alcuni minuti e la dividerete in tante pallotte come vedete in foto. Ognuna peserà 80/85 grammi, grammo più, grammo meno.

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imageCon le pallotte formerete dei cilindri irregolari: al centro rimarranno più spessi, e le estremità saranno più sottili. Queste verranno poi incrociate, o annodate , se preferite, comunque sempre riattaccate alla parte più spessa. Le lascerete riposare ancora per un quarto d’ora, dando loro il tempo di ricrescere ancora una volta.

 

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Nel frattempo avrete acceso il forno (statico) portandolo a 200°. Avrete pure preparato il bagno alcalino, portando ad ebollizione in una pentola l’acqua con la presa di sale. Quando l’acqua bollirà, allontanerete la pentola dal fuoco, e verserete con molta cautela e un poco alla volta  il bicarbonato. Al contatto col bicarbonato l’acqua inizierà subito a spumeggiare di vivace effervescenza, e, se non sarete accorte/i, il bagno alcalino ve lo farete voi, non le Brezel, quindi occhio!

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Calerete nel bagno alcalino le Brezel una ad una, spingendole verso il fondo con una schiumarola, lasciandole bollire per circa 30 secondi, dopo i quali le scolerete per bene (sempre con la schiumarola),  le porrete su una ramina (per i comuni non-Abruzzesi: una placca) che avrete avuto cura di coprire con carta forno, e le guarnirete da ultimo con del sale grosso (se preferite, potrete usare anche del sesamo, o del papavero, o quello che più vi aggrada). A questo punto le Brezel sono pronte per essere infornate.

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Le cuocerete per una mezz’ora circa, fino a quando non avranno assunto un bel colorito dorato, e risuleranno screziate di crepacci chiari, come si conviene alle Brezel.

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Ecco, le Brezel sono pronte, e sono da consumare ancora un filo calde, cosa che al Pitone non sarebbe affatto dispiaciuta, se fosse stato nei paraggi.

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Allora, se avessi voluto essere filologggico, avrei dovuto arrostirmi dei  Würsteln, accompagnandoli coi crauti,  Händlmaier Senf e birra. E invece il mio pranzo prevedeva asparagi locali (queli buonissimi del Marchfeld, appena fuori città) e, lo confesso, una burrata pugliese. Sì, la burrata a Vienna. Ci avevo solo quella in casa ed era domenica, niente filologggia quindi.

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Ancora un pranzo domenicale senza il Pitone. Con me c’erano però tante Brezel, che hanno forma di catene… Sono liete, fortunate, dolci, grate le catene d’un fido amor!

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Ciomp!

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Non si dà follia maggiore. Cucinare nella lavastoviglie

Fa caldo, tanto caldo. E col caldo arrivano le follie, le “mattità”, come si dice dalle mie parti. Mattità estive e culinarie. Impreviste, sorprendenti. Sì, il titolo non è un errore: ho davvero scritto “cucinare nella lavastoviglie”. Sì, è una cosa folle, come ho sottolineato poc’anzi. No, non mi ha dato di volta il cervello. Qualche tempo fa, cercando ricette in Internet, mi sono imbattutto nella ricetta più “enovme”, come direbbe Franca Valeri, che mi fosse mai capitato di leggere: cucinare le  verdure con la lavastoviglie. La cosa era così pazza che non potevo non soffermarmi a leggere. Ed era così “enovme” che ho voluto metterla in pratica, non appena mi fosse capitata l’occasione. Cioè, non appena fosse arrivata la stagione giusta per le verdure che avevo in animo di cucinare in questo modo impensato: la filologgia anche nella follia. L’estate è arrivata, e con essa le zucchine. E anche il caldo padano, necessario ingrediente di ogni follia, pardon, “mattità” davvero folle.

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Zucchine confit nella lavastoviglie

Ricetta folle

Ingredienti e strumenti:

  • Zucchine tenere e piccole (non i siluri coriacei del supermercato);
  • pomodorini di Pechino (li chiama così una mia prozia megera ma carissima molto brava in cucina, e in suo onore li ho così ribattezzati);
  • 1 pelapatate o una mandolina;
  • 1 barattolo di vetro;
  • 1 lavastoviglie.

dopo le esagerazioni barocche del Fiadone, questa ricetta è il risarcimento doveroso alle amiche in cerca della cucina veloce e affabile.

Preparazione:

Affettate le zucchine in senso longitudinale aiutandovi con un pelapatate (come ho fatto io) o, se l’avete, una mandolina (si tratta di un aggeggio adatto allo scopo dal bel nome musicale, che mi ricorda la Canzone del velo dal Don Carlo di Verdi, la “canzon saracina propizia all’amor“. La voglio!).

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Sistemate le fettine ottenute in un barattolo, alternandole con la metà di qualche pomodorino di Pechino.image

Chiudete bene, e sistemate il barattolo nella lavastoviglie insieme ai piatti sporchi (che invece di lavare in famiglia io stavolta esibisco addirittura nel blog).

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Avviate la lavastoviglie con un programma non a bassa temperatura (non “Eco”, quindi), altrimenti le zucchine non si cuociono. Io ho scelto il programma “Piatti”, un programma base. Attendete che finisca, poi estraete il barattolo: le zucchine confit saranno pronte. In alternativa attendete qualche ora, come fate di solito, visto che immagino non estraiate mai le stoviglie bollenti. Le zucchine saranno ottime lo stesso.

Sì, le zucchine nel frattempo si saranno cucinate a dovere, anzi, propriamente, saranno “confit”, quasi caramellate: cotte, ma croccanti, e con un sapore intenso, come con nessun altro tipo di cottura non folle si riesce a ottenere. Inoltre si risparmia anche energia, che non fa male.

imageHo condito le zucchine (e i pochi pomodorini di Pechino) con timo e menta appena colti, un pizzico di sale e olio extravergine d’oliva di mio padre (mica pizza e fichi), accompagnandoli con della ricotta di capra freschissima (quando parla della ricotta, la somma Anna Gosetti della Salda la definisce sempre così, e io non voglio essere da meno), che è il vero charme di questa ricetta.

imageMolto perplesso al racconto telefonico di questa mia ultima follia, il Pitone, assente, non ha avuto ancora modo di assaggiare.  Conoscendolo, sono tuttavia fiducioso.

Ciomp! 😛

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Polpette d’Egitto

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Piramidal… All’inizio non sapevo bene cosa farmene di un libro di ricette orientali. La mia cucina era così filologgica, che il regalo pur molto gradito di un’amica carissima mi metteva un po’ in difficoltà. E sì, perché leggendo le varie prelibatezze in esso descritte, e pensando a come metterle in pratica, mi vedevo perduto tra gli scaffali di uno squallido supermercato qualsiasi alla inutile ricerca delle spezie giuste, degli ingredienti perfetti e irripetibili previsti. Dove mi sarei mai procurato il cumino della Mesopotamia? E l’uvetta di Cipro, e il vino di Tiro, e lo zafferano raccolto da suore ortodosse cieche in notti di luna piena? Se già la cucina del Sud Italia è un fiero cimento per il cuoco filologgico che sta al Nord, figuramoci che cosa può essere quella della Via della seta. E senza “fonti” e “strumenti origginali” il (cuoco) filologo manco ci si mette all’opera, no?

Piramidal!

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Sono passati tre anni da quel regalo, ed è passata tanta filologgia sotto i ponti: adesso gli ingredienti giusti sono meno impossibili di prima, e la cucina esotica, di conseguenza, meno impraticabile: sesami, pistacchi, cumini, tahine di ottima qualità si trovano un po’ ovunque. Anche quelli raccolti dalle suore cieche in notti di luna piena. Era solo una questione di tempo, e adesso, oltre a farla “abruzzese” o “medievale” la faccio pure “orientale” la cucina. Mica pizza e fichi. Piramidal!

La prima ricetta che ho provato sono le Falafel, polpette di ceci al forno:

Falafel (polpette di ceci al forno)

Ingredienti (per 4 persone)

  • 500 gr. di ceci;
  • 1 mazzetto di prezzemolo;
  • 1 mazzetto di menta (meno della metà del precedente);
  • 4 cucchiaini da the di cumino macinato (io uso macinarlo al mortaio, ma poi mi dite che sono snob e impossibile, quindi usate quello che volete, anche quello già pronto, tanto poi le Falafel che preparate ve le mangiate voi… 😉 );
  • 4 cucchiaini da the di sesamo tostato e macinato (come sopra, con la differenza che il sesamo prima di essere pestato al mortaio deve essere prima tostato);
  • 2 spicchi di aglio finemente tritati o schiacciati con lo schiaccia-aglio;
  • mezza cipolla (siccome la cipolla fresca, ancorché ottima, mi si aripropone, come dicono a Roma, uso trattarla prima con aceto di mele, così da evitare di averla come interlocutrice per le ore e i giorni successivi. Il trattamento consiste in questo: tagliate la cipolla a fette, che immergerete per 1 minuto nell’aceto di mele, per poi scolarle e asciugarle prima di usarle. Funziona, è garantito);
  • 6 o 7 cucchiai di olio extravergine d’oliva;
  • 6 o 7 cucchiai di yogurth;
  • sale.

Preparazioneimage

Mettete in ammollo i ceci per 24 ore in acqua abbondante in cui avrete sciolto del bicarbonato di sodio (per ammorbidirli meglio). Passato il tempo, scolateli, sciacquateli e asciugateli velocemente.

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Mettete i ceci nel mixer, aggiungendo tutti gli altri ingredienti (prezzemolo, menta, aglio tritato, cipolla trattata, cumino e sesamo macinati, yogurth e olio) e frullate fino ad ottenere un impasto morbido e omogeneo, che farete riposare in frigorifero per almeno un’ora.

imageFoderate una teglia con della carta da forno. Prendete l’impasto e formate delle palline grandi come una palla da golf, ponetele sulla placca foderata e schiacciatele fino a formare dei dischi di 1/2 o 1 centimetro di altezza.imageUngete ciascuna delle Falafel con un filo d’olio, poi cuocete in forno preriscaldato a 200° (ma ognuno sa i forni suoi) per una mezz’ora, o, meglio, fino a quando le Falafel non avranno assunto un bel colorito dorato.

imageSfornatele, e pappatevi le Falafel in somma allegria. Piramidal!

imageStavolta io ho accompagnate le Falafel con un Guacamole leggero leggero (solo avocado con spezie) e con del buon Montepulciano d’Abruzzo, che è il vero charme di una serata tranquilla.

Ah, dimenticavo, il Pitone domestico ha gradito, eccome se ha gradito

Piramidal!

P.S. Le Falafel andrebbero fritte e non cotte al forno. Vi ho proposto qui una versione più leggera e meno impegnativa. Che filologgia sarebbe senza varianti?

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Cima, Scema e Massaciglia: tre pizze, anzi, una

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Non so più quante volte ho chiesto a mia nonna di farmi la pizza di massaciglia (o pizza cima, o pizza scema). La risposta era sempre la stessa: come ti viene in mente? (Ovviamente lei lo diceva in dialetto: «Agnà te vé ‘mmend?») Non le è mai piaciuto cucinare. Mia nonna ai fornelli faceva tutto bene, ma non era la sua passione. Primogenita di quattro figli, aveva dovuto attendere quattro anni l’arrivo del fratello, che ci avrebbe messo un po’ prima di essere abile al lavoro. A lei, quindi, toccò imparare a lavorare la terra invece di essere cresciuta come una brava massaia. Ancora adesso, con la memoria un poco appannata dai suoi 98 anni, la terra è sempre il suo primo pensiero, e se dimentica per qualche attimo il mio nome o quello di mia cugina o di sua figlia, non dimentica mai di chiedere a suo tempo della vendemmia, della raccolta delle olive o della potatura.

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Sebbene abbia trascorso in campagna molte delle mie estati fino oltre l’inizio della scuola, e in un ambiente non troppo diverso da quello della Figlia di Iorio (e non è una balla!), io la pizza di massaciglia non l’avevo mai né vista né tantomeno assaggiata.

Era stato mio padre a parlarmene, della pizza di massaciglia, quasi per caso, in uno dei suoi tanti racconti di cui sono sempre stato avido sulla sua vita in campagna da bambino e da ragazzo. La pizza di massaciglia, mi diceva, era una pizza non lievitata, cotta nel camino sotto il “coppo” (poi vi spiego, un po’ di pazienza), con cui si faceva colazione la mattina prestissimo, prima di andare a lavorare nei campi.

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Adesso non ricordo quanti anni avessi all’epoca di questo racconto, ma ricordo di essermi sentito privato di qualcosa di speciale, qualcosa che nessuno intorno a me faceva più. In verità questo non era vero. Anni dopo avrei scoperto che solo a casa mia nessuno faceva più la pizza di massaciglia, mentre questa tradizione continuava ad essere coltivata, anche se non ci si alzava più ad ore antelucane e non si andava nei campi. La facevano, anzi, in molti, anche in case di parenti a noi molto vicini, e ancora oggi non mi spiego come io non l’abbia mai mangiata, neanche per caso, fino a tempi recentissimi. Insomma, mi sono sentito come ad un passo dall’arca perduta, e volevo a tutti i costi arrivare a scoprirla. La nonna, però, alle mie richieste rispondeva sempre e solo «no»: è famosa per le sue argomentazioni doviziose.

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Alla fine poi la pizza di massaciglia l’ho fatta. Negli ultimi anni, chiedendo in giro, carpendo mezze parole da prozie carissime e renitenti alle spiegazioni (mia nonna non fa certo eccezione nell’ambiente), ho trovato la ricetta. E oggi vi spiego come si fa la pizza cima, pizza scema o pizza di massaciglia.

Si chiama pizza scema o pizza cima (sua derivazione) perché è una pizza azzima, senza lievito. Potrebbe essere un portato della cucina ebraica in Abruzzo, ma di questo so poco e vi rimando a pagine dove potrete trovare informazioni a riguardo. Più difficile capire perché si chiami ‘di massaciglia’. Forse la parola indica un impasto che resta compatto perché non lievitato, chissà.

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A casa mia, ad ogni modo, si chiama così. Anzi, si chiama «pizz’ de mmassacije», e vi pregherei di chiamarla anche voi così, piuttosto che con l’italianizzazione correttina «pizza di massaciglia». Funziona molto meglio. Converrete, del resto, che dire a qualcuno «i mortacci tuoi!» non è proprio lo stesso che urlargli un sonoro «li mortacci tua!», no?

Nota: dalle mie parti la parola «pizza» indica qualsiasi cosa di forma tonda più larga che alta. Indica la pizza propriamente detta, ma anche altre preparazioni che con questa condividono solo la forma, seppure, come, per esempio, la «pizza dolce», id est torta di pandispagna con crema pasticcera, sappiatelo.

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Pizz’ de mmassacije (o cima o scema)

Ricetta

Ingredienti:

  • 1 Kg di farina. Va bene di cereali di qualsiasi tipo (farro, integrale, miscele fantasiose e così via), ma è meglio non usare la 00. Io uso di preferenza farina di grano duro, ma non è semplice da trovare fuori dall’Abruzzo. Anch’io stavolta ne ho fatto le spese di questa situazione incresciosa per la buona cucina, e ho dovuto usare una farina di ripiego, una semola fine di grano duro. Non c’è niente di sbagliato, ma la consistenza troppo sabbiosa di questa macinatura ha richiesto un aggiustamento degli altri ingredienti.
  • 2 bicchieri di olio extravergine d’oliva;
  • 2 bicchieri di vino (bianco o rosso, non fa troppa differenza; io preferisco usare il rosso);
  • attenzione con le quantità di olio e vino: è necessario che l’impasto sia compatto, ma sempre morbio e quando lo schiacciate si apra ai bordi (segno che l’olio è sufficiente). Quindi: non siate timidi con l’olio e col vino, e ricordatevi che nelle ricette di casa si fa tutto “a sentimento.”
  • sale a piacere.
  • Secondo la versione della nonna e di una mia prozia non si usa il vino, ma solo l’acqua; secondo quella di un’altra prozia e di sua figlia il vino si usa. La pizza viene ugualmente buona anche senza, ma ha una consistenza e un sapore diversi. Scegliete pure la versione che preferite, io preferisco quella col vino.

Preparazione

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Fate una fontana con la farina, e amalgamate lentamente con l’olio, il vino (o solo l’acqua nel caso della seconda versione) e il sale fino a ottenere un impasto morbido e omogeneo. Se vedete che è troppo secco aggiungete un po’ dei tre liquidi, osservando sempre le proporzioni indicate.

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Con l’impasto formate una palla, avvolgetela nella pellicola trasparente o, se siete in vena di raffinatezze da libro di cucina di una volta, in uno strofinaccio. Se scegliete questa opzione, assicuratevi che lo strofinaccio sia stato tessuto a mano, e sia di lino prodotto artigianalmente. Se così non fosse, lasciate perdere, e usate la pellicola, tanto non sareste filologici comunque.

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Una volta compiuta questa operazione, fate riposare l’impasto per una mezz’ora in luogo fresco e tranquillo. Nel frattempo ungete una teglia da forno e infarinatela. Una volta pronto, togliete l’impasto all’involucro, ponetelo nella teglia (o nelle teglie, dipende da quanto è grande la teglia che usate e se cuocete in più riprese), e stendetelo con le mani formando una pizza di un paio di centimetri, suppergiù. Sulla superficie traccerete dei solchi a scacchiera: ogni quadrato (o rombo) dovrà misurare circa 3 centimetri per lato; in ogni quadrato praticherete poi dei fori con una forchetta.

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La ricetta originale prevede la cottura nel camino sotto la cenere (vedi sotto), ma bisogna essere esperti e averci il camino e il “coppo”, perciò se non li avete, usate pure il forno. Cuocete a forno caldo (circa 180°/200° o più, ognuno sa i forni suoi) fino a che la pizza non avrà un bel colore dorato (possono occorrere dalla mezz’ora in su, dipende dal forno). Sfornate, estraete la pizza, e che la festa cominci. Questa pizza è particolarmente adatta ai golosi ansiosi, i cosiddetti ‘pitoni’ che dimorano in ogni casa e che impazziscono all’idea di dover aspettare per gustare le prelibatezze che escono dal forno, loro le ingoierebbero volentieri intere così come sono. Questa pizza mette d’accordo tutti, perché è buona in tutti i modi, bollente, calda o fredda.

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Per la cottura sotto il coppo è necessario aver acceso il fuoco da alcune ore perché la temperatura del camino sia molto calda, e perché ci sia sempre tanta brace a disposizione (per i non abruzzesi: il coppo è un coperchio di ferro di forma circolare e con le sponde alte. Si usa per cuocere vivande nel camino, ponendovi sotto i cibi in una teglia – o anche senza, vedi sotto – ricoprendolo poi di cenere e brace). Prima di preparare l’impasto, scalderete il luogo della cottura ponendo della brace viva sul pavimento della parte del camino in cui metterete la teglia col coppo (se avete un camino di mattoni la teglia non è indispensabile, e adagerete la pizza direttamente sul pavimento del camino; altro che Figlia di Iorio qui!).

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Una volta pronti con l’impasto allontanerete la brace, metterete la teglia nel camino, ponendovi sopra il coppo, circondandolo e coprendolo di cenere e brace (fate attenzione però a non esagerare, altrimenti la pizza, che è sottile, brucerà).

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Il tempo di cottura è circa 40/50 minuti (dipende dal calore del camino).

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Ecco, la pizze’ de mmassacije è pronta!

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Come vi dicevo, nella mia famiglia la pizz’ de mmassacije veniva mangiata a colazione, prima che i miei nonni si recassero nei campi.

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Si accompagnava in genere ai peperoni arrosto, che sono il vero charme delle colazioni raffinate… Io l’ho usata per il pranzo di Natale e quello di san Silvestro, accompagnandola alle più diverse pietanze (anche ai peperoni arrosto), sempre con grande successo (sono modesto, lo sapete).

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