Una pizza a quest’ora?

Tra poco è ora di cena, e questa non è ora di pizze. Non lo è nella tradizione gastronomica della casa in cui sono cresciuto, che oltre che “gastro” è molto “nomica”, nel senso che è regolata da leggi e consuetudini ataviche e soprattutto rigorose, rispettate sempre con attenta scrupolosità. Tra queste c’è quella che riguarda la pizza di cui vi parlo oggi: non si mangia mai a cena; solo a pranzo. Non è la pizza a cui state pensando: in Abruzzo tante cose portano il nome “pizza”. Questa è una di quelle. È la cosiddetta “pizza ggialla” o “pizz’ d’ ‘randinnjie,” cioè “pizza di granturco.” Si accompagna alle verdure, o allo stoccafisso, che a casa dei miei si mangiano solo, e dico SOLO, a pranzo. La pizza convenzionale, invece, si mangia solo, e dico SOLO a cena. Come del resto la verdura si mangia il lunedì, il brodo  il sabato, il ragù solo il giovedì e la domenica, la pasta solo a pranzo e potrei continuare. Dal piatto che ci si trova davanti a casa mia (ma la mia famiglia d’origine non è certo un’eccezione) si capisce il giorno della settimana.

Dunque, dicevo della pizza ggialla che si mangia solo a pranzo, specie di lunedì, che è il giorno della  verdura. È di una semplicità disarmante, ma proprio per questo nasconde qualche insidia. Gli ingredienti sono pochissimi. Ma non ci sono dosi: tutto si fa a occhio, “a sentimento” —  ricordando che   in Abruzzese “sentimento” significa insieme “sensibilità” e “intelligenza”; dire di qualcuno (dirlo a qualcuno sarebbe un filo pericoloso per chi lo fa) che non ha manco un po’ di sentimento equivale a dargli dell’ottuso.

Contintuo a divagare. Ecco, gli ingredienti sono questi:

Ingredienti

  • 2 parti di farina di granturco tipo “fioretto” (cioè quella sottile, non quella bramata)
  • 1 parte di farina di grano duro. Non è la semola, bensì la farina: è più sottile. Potete anche farla tutta di granturco, ma con le due farine è migliore. Se avete solo la semola, usate quella. Io uso una tazza da the come unità di misura.
  • sale (quanto basta, e quanto vi piace)
  • acqua
  • olio d’oliva buono

Preparazione

Mescolerete accuratamente le farine e il sale in un bacile. Porrete intanto l’acqua a bollire. La quantità dipende da quella delle farine; per quattro persone (cioè tre tazze da the di farine) io ne metto a bollire circa due litri.

Quando l’acqua bolle in modo intenso, inizierete a versarne nel bacile sulle farine, mescolando con un cucchiaio di legno. Procederete con poca acqua alla volta, riponendo sempre la pentola sul fuoco acceso perché deve essere sempre bollente. Versando e mescolando, otterrete in breve un impasto malleabile. Fermatevi con l’acqua e cercate di impastare anche se non tutta la farina sarà bagnata. Scotta, sì, lo so, ci vorrebbero le mani da contadini che pochi ormai hanno, ma con un po’ di pazienza ci si riesce. Formerete una palla, che schiaccerete ottenendo unaspecie di focaccia alta almeno due dita.

Cottura

La pizza ggialla si cuoce nel camino sotto al coppo che ho spiegato qui.  Ma si cuoce anche al forno, o in padella. Vi spiego l’ultima, la più veloce. Prenderete una padella, la ungerete e la porrete sul fuoco a fiamma viva, meglio se con uno spargifiamma. Quando sarà ben calda, ci porrete dentro la pizza e la lascerete rosolare, fino a quando non sentirete un bel profumo di arrostito e leggerissimamente bruciato. A quel punto girerete la pizza, fancendola rosolare dall’altro lato. Dovrà formarsi una bella crosta croccante.

Quando avrete ottenuto l’effetto, la pizza sarà pronta. Potrete accompagnarla alle verdure in umido (scavando la parte morbida e mescolandola ad esse, e mangiando quella croccante a mo’ di pane), allo stoccafisso in umido, o a quello che vi pare. Funziona benissimo come sostituto del pane, e dura per qualche giorno.

In giorni come questi, quando anche il lievito di birra è un’araba fenice, la pizza ggialla potrà essere, spero, d’aiuto.

 

 

Erano cellipieni all’aura sparsi

Non è una ricetta estiva, questa. Nemmeno primaverile. È una ricetta del mese di gennaio. Fuori tempo, quindi, come anche fuori luogo. Sì, perché, manco a dirlo, è una ricetta abruzzese, ma fatta in Lombardia. A fine dicembre, ma raccontata a metà luglio, quando nessuno qui ci ha la minima voglia di accendere il forno, o di rimpiangere l’inverno, visto che l’estate è appena appena iniziata. Sono trascorsi molti mesi dall’ultima volta che ho messo piede in cucina non solo per la sopravvivenza quotidiana che è quasi il caso che rifaccia le presentazioni con mestoli, coltelli, teglie e fornelli. Ormai n’avimme fatte furastiere, come direbbe il mio amico di Taranto.

Dopo una lunga assenza, non è forse il caso di perdersi in preamboli. La ricetta di oggi (cioè, di gennaio), è quella dei Cellipieni. Significa “uccelli ripieni”, perché questi dolci,  che si preparavano per la festa di Sant’Antonio Abate (lett. “Sandandonie”) del 17 gennaio, avevano davvero la forma di uccelletti. Niente di birichino, come qualcuno potrebbe aver pensato. Per lo più adesso i Cellipieni hanno perso testa, coda e ali, e somigliano a dei ravioli giganti, ma da alcune parti hanno conservato la forma originaria, oltre al nome.

Cellipieni

ricetta

Ingredienti (per un numero imprecisato di persone)

per la pasta:

  • 1/4 di litro di vino o vermouth bianco
  • 33 dl di olio di oliva extravergine
  • 1/4 di bustina di lievito per dolci
  • 2 chucchiai e 1/2 di zucchero
  • 250 gr di farina 0
  • 250 gr di farina di grano duro
  • buccia grattugiata di un limone non trattato

per il ripieno

  • marmellata d’uva Montepulciano d’Abruzzo
  • mosto cotto (meglio se di uva Pergolone)
  • buccia grattugiuata di una o due arance non trattate
  • madorle tostate e tritate grossolanamente
  • ciccolata fondente di ottima qualità
  • cannella in polvere (macinata al momento)
  • liquore dolce

Preparazione

Mescolerete le farine con lo zucchero e la buccia di limone, formando una fontana. Al centro verserete l’olio e il vino e il lievito, che inizierete a impastare con la farina e gli altri ingredienti aiutandovi con una forchetta. Quando avrete raccolto il tutto in un impasto, passerete alle mani.

Lavorerete tutto fio a ottenere un impasto omogeneo che inizierà a staccarsi dalle mani. A questo punto potrete avvolgere tutto in un tovagliolo, riponendolo a riposare sotto una terrina per circa una mezz’ora.

Nel frattempo preparerete il ripieno. Avrete già tostato le mandorle, tritandole in modo grossolano. Le mescolerete alla marmellata d’uva e agli altri ingredienti, scaldando il tutto su una fiamma dolcissima, ma facendo attenzione a non cuocere il composto, ma solo ad amalgamarlo.

Stenderete la pasta col mattarello ricavandone na sfoglia che taglierete con un bicchiere (non usate bicchieri troppo piccoli, non state facendo i Cellipieni per la Barbie). Porrete al centro un po’ di ripieno, e chiuderete il disco di pasta, ripiegandolo su se stesso, e facendo bene attenzione a incollarne i lembi, inumidendoli magari con un dell’acqua (basterà bagnarsi le dita e passarcele sopra). QUando la pasta è ancora umida, li cospargerete con dello zucchero, se vi va.

Avrete frattanto portato il forno alla temperatura di 180°. Dopo averli disposti in una ramina (= placca) foderata di carta, o opportunamente imburrata e infarinata, infornerete i Cellipieni. Saranno pronti non appena li vedrete colorirsi.

I Cellipieni sono  più buoni se consumati uno o due giorni dopo, dopo averli  fatti raffreddare e averli riposti in un contenitore di latta in una dispensa non riscaldata. Non sono particolarmente dolci (lo zucchero è poochissimo e la marmellata d’uva non prevede l’aggiunta di zucchero), ma il loro gusto stratificato dato dai molti ingredienti  si rivelerà lentamente a ogni morso. Non sarà facile né resistere, né aspettare: l’impasto con olio e vino, il ripieno con le sue spezie spargeranno aromi nell’aura di casa che vi faranno lo stesso effetto delle Sirene a Ulisse. Fatevi distrarre, o anche legare al divano, alla sedia, al letto, se amate la cultura classica, la vostra attesa sarà senz’altro ripagata.

Ciomp!

 

Se una sera d’inverno un cacciatore

Domenica sera, cena a casa della S. (uso gli articoli perché questa è una storia del Nord, e senza gli articoli i suoi protagonisti non sembrerebbero più loro). Chat di gruppo per definire i dettagli (eh sì, cari, qui al Nord si è moderni). Arriva il messaggio dell’A. L’A. è un amico cacciatore. Il sabato era stato a caccia. Chiede il soccorso preventivo dei commensali: “qualcuno desidera fagiani? ne ho presi diciotto”. Però! La S., la padrona di casa, non proferisce motto. Come nessun altro, del resto. Mi faccio avanti solo io, che di cacciagione non so una mazza. A cena dalla S. mi arrivano così non uno, ma due fagiani appena appena sparati, come direbbe A., che non è il cacciatore, ma è un’altra amica, del Sud, e infatti non ha l’articolo.

Meno male che l’A. cacciatore li ha spennati, e dissanguati. Sì, ma adesso? che ci si fa con i fagiani? La tentazione era fare, che so, qualche ricetta di Cristoforo da Messisbugo, Libro novo nel qual si insegna a far d’ogni sorte di vivanda, Venezia 1557,  come il “Fagiano in pezzi in pignata all’Allemana con persuto tagliato minuto“. Quando uno ci ha i fagiani è facile che si monti la testa, e si senta già un po’ il duca di Ferrara o, peggio, Trimalcione. Poi però ho seguito l’esempio dell’A., che con sua madre prepara un ottimo ragù di fagiano, di cui mi aveva fatto dono tempo addietro. L’ho fatto anche perché, come tutti i trattati di cucina storici, quello di Messisbugo non è fatto per insegnare a chi non sa già (anche Artusi è così). La madre dell’A., invece, sarebbe certo stata più prodiga di dettagli.

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La preparazione è stata lunga. Primo perché i fagiani si sono fatti due mesi di congelatore, prima che avessi il tempo e il coraggio di affrontarli. Poi perché la marinatura, la  prima cottura, e la seconda cottura hanno richiesto due giorni, e infine perché l’A. cacciatore non si ricordava mai di mandarmi la ricetta della mamma, che è arrivata giusto in tempo prima che scoppiasse l’estate.


Ragù di fagiano

Ingredienti
– fagiano
– carote, sedano, cipolla (di questi doppia razione, capirete subito perché), salvia, rosmarino, lauro, pepe in grani, sale
– vino bianco
– olio extravergine d’oliva
– brodo di carne mista (cappone e manzo)
– uno noce di burro (meglio se non di centrifuga)

Preparazione
Taglierete il fagiano a pezzi, lo laverete, mondandolo degli eventuali rimasugli di interiora, e lo porrete in un recipiente con tutti gli odori e le spezie, ricoprendolo col vino. Coprirete e mettere il tutto in frigorifero, lasciando marinare per almeno 24 ore.

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Trascorso questo tempo, scolerete i pezzi di fagiano, eliminerete le spezie, e lo metterete a rosolare in una pentola con dell’olio. La fiamma sarà vivace. Nel frattempo avrete tritato insieme un’altra serie di carota sedano e cipolla, e avrete preparato un soffritto, che terrete da parte. Metterete a scaldare il brodo misto.

Quando il fagiano sarà rosolato, lo sfumerete con il vino della marinatura. Aggiungerete il soffritto e alcuni mestoli di brodo bollente, abbasserete la fiamma, coprite e lascerete cuocere per circa un’ora, controllando che non si secchi (nel caso, aggiungerete del brodo bollente).

Quando la carne si sarà ammorbidita, toglierete i pezzi di fagiano dalla pentola, e di disosserete. Questo è il momento in cui potrete togliere i pallini, nel caso ne siano rimasti.

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Terminata questa operazione, taglierete la carne a piccoli pezzi, e la rimetterete a cuocere nella pentola, aggiungendo del brodo bollente. La cottura potrà richiedere anche tre o quattro ore, o anche più; dipende dal fagiano. Verso la fine della cottura, se lo desiderate, potrete aggiungere una noce di burro.

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A questo punto il ragu sarà pronto. Non lo userete subito: questi sughi dalla lunga preparazione schiudono i loro sapori col tempo, quindi meglio aspettare un giorno prima di usarli.

Io ci ho condito i maccheroni alla chitarra che ho fatto io, servendoli con una generosa spolverata di parmigiano grattugiato.  Ma non ho una foto, ho dimenticato di farne  quando ho preparato la cena venerdì scorso. Il ragù era talmente buono che mi sono esaltato e quindi distratto. Compatite!

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La liva bianca, la liva nera

Da bambino non capivo mai bene i testi delle canzoni, delle canzoni italiane intendo. C’erano parole o espressioni che non conoscevo, cosa che capitava spesso – avevo tre, quattro anni al massimo – ma c’erano anche parole che capivo male o a modo mio, e che modificavo in modo il più economico possibile per ricondurle a un minimo di senso compiuto, o che a me pareva tale. Molti anni dopo avrei scoperto che questo è quello che fanno normalmente i filologi con i testi resi irriconoscibili dai danni del tempo. Ero io già filologo precoce o la filologia, come la capacità di galleggiare, è dentro di noi dalla nascita e poi si perde per doverla a fatica reimparare in modo cosciente dopo?

Insomma, i testi delle canzoni li capivo come secondo me avevano senso, e li cantavo come li capivo o li ricostruivo. Cantavo spesso, spessissimo. Lo facevo per intrattenermi quando giocavo da solo (lo faccio anche adesso, anche se non gioco), lo facevo, anzi, lo facevamo insieme ai “grandi”, che nella mia famiglia sono sempre stati canterini. In queste situazioni però, a volte, cascava l’asino: le mie ricostruzioni “filologiche” venivano messe alla prova delle fonti autorevoli che mi facevano fare la figura del piccolo Beckmesser. Una delle più ridicole, anche perché mosse per lungo tempo l’ilarità di tutti, fu la mia versione di “La riva bianca, la riva nera” di Iva Zanicchi, una canzone del 1971.

L’avevo sentita, forse a Canzonissima, e conservo ancora nella memoria anche un’immagine della trasmissione. Mi  era piaciuta e la cantavo spesso. Cantavo  «però sul fiume passa la frontiera | la liva bianca, la liva nera»: sì, la cantavo così. Non sapevo cosa fosse la frontiera – avevo tre anni – e non vivevo in luoghi in cui ci fosse dimestichezza con i corsi d’acqua. C’era e c’è solo il mare, ma quello di riva ne aveva visibilmente una sola. La «riva» per me non significava nulla, nulla almeno che avesse una sua controparte, qualcosa di simile e opposto insieme. Ce l’aveva invece «la liva», «la liv’», come in famiglia tutti chiamavamo «le olive» che noi e i nostri parenti coltivavamo (e coltiviamo), parlando in dialetto o in un Italiano (molto) regionalizzato. La «la liva» sì era o bianca o nera, e il  confronto tra le due poteva essere drammatico come quello tra le «live» della canzone, anche se non c’era per questo bisogno della frontiera, che per me, comunque, allora non significava nulla: secondo il lessico filologico era cioè una crux desperationis, una corruttela grave e non sanabile. «La liva bianca» era quella buona, che a me piaceva ssai; «la liva nera», invece, quella cattiva. Era amara, e non mi piaceva per niente. Con la «liva» cantata al posto della «riva», il conflitto tra le rive fatali diveniva qualcosa di finalmente comprensibile, per me altrettanto fatale,  perché concreto ed esperito tutte le volte che mi avevano detto di mangiare le olive nere. «La liva bianca, la liva nera» finì per essere uno dei tormentoni buffi della mia infanzia.

La «liva nera», quella vera, invece sarebbe sparita presto. Nel senso che avremmo fatto sempre uso (parco, ad esere onesti) di olive nere, ma «comprate» nonostante le olive le coltivassimo noi. Come i flash in bianco e nero di Iva Zanicchi, ho alcuni falsh, ma a colori, di grandi barattoli  di «liva nera» che giravano per casa, per lo più nelle dispense, con dentro granelli di sale grosso e frammenti di buccia d’arancia. Ma sono spariti presto, da me punto rimpianti, visto che le olive nere sono rientrate nel mio orizzonte gastronomico solo molti anni dopo.

Lo scorso novembre ero a Lucca, un sabato pomeriggio. Lì da un fruttivendolo ottimo del centro ho trovato le olive nere che un cartello diceva «amare», e così ho provato a fare le olive col sale grosso e le bucce d’arancia, che ricordavo. Ho fatto una navigata su internet e poi ho fatto di testa mia. Poi mia zia mi ha confermato che era proprio quello che faceva la nonna.  Si sa, i bravi filologi ricostruiscono i testi con ipotesi che poi nuove scoperte confermano come “giuste”, se non additittura “autentiche”. E scusate se è poco.

Olive nere sotto sale

ingredienti

  • olive nere (cioè mature. Anni fa il Pitone – quoque! – mi chiese se in Abruzzo avessimo piante di olive verdi o nere, pensando che le olive fossero come l’uva. Non ho spauto frenarmi e sono scoppiato a ridere, e l’ho preso in giro per anni: non credevo che una domanda del genere fosse neppure pensabile. Ecco, che non vi vengano strane curiosità, solo questo);
  • sale grosso;
  • buccia di arance (non trattate) e di limoni (idem);
  • spezie (a piacere; io ho usato: semi di finocchio, lauro, origano, maggiorana, timo, lavanda, tutte tritate finemente, tranne i semi di finocchio, che ho lasciato interi).

preparazione

Laverete le olive e le asciugherete con cura. Quando saranno asciutte, le porrete a strati in un barattolo capiente, alternandole con strati di sale,. buccia di agrumi e spezie. Procederete così fino a quando raggiungerete l’ultimo strato di sale e spezie.

Chiuderete il barattolo con uno strofinaccio e lo porrete in un luogo della casa non troppo riscaldato. Nel giro di qualche giorno, per effetto del sale le olive cominceranno a tirare fuori liquido. A questo punto toglierete lo strofinaccio, chiuderete il barattolo, e lo rovescerete, lasaciandolo a testa in giù per qualche ora. Poi ri rimetterete in posizione dritta e lo agiterete qualche volta.

Continurete ad capovolgere e agitare il barattolo quante volte vi sarà possibile. Lo farete per circa due settimane, fino quando cioè alla prova assaggio capirete che le olive hanno perso del tutto l’amaro.

A questo punto prenderete le olive mondandole del sale in eccesso (non, se possibile, delle spezie e le bucce degli agrumi, che anzi, mondate del sale in eccesso, terrete da parte) con l’aiuto di un colapasta dalle maglie non troppo fitte e le porrete in un bacile con le bucce. Qui le condirete con un po’ d’olio extravergine di oliva, mescolandole con attenzione.

Una vola condite e mescolate, metterete le olive in barattoli di vetro,  e le conserverete a) in una cantina fredda; b) in frigorifero (come me, che non ho una cantina fredda).

Ecco, la «liva nera» è pronta per il consumo. E sarà buonissima: non salata e ricca di aromi.

Ciomp!

Pizze degli avi miei!

Nelle prime settimane di ottobre, dopo aver vendemmiato e fatto il vino, ci trasferivamo di nuovo in paese. In campagna avevamo trascorso l’estate, nella casa dei miei nonni paterni, senza riscaldamento, solo con un camino nella cucina, senza acqua calda e col bagno fuori. Grande, per carità, il bagno, ma fuori. E senza acqua calda. Ah, questo l’ho già detto.  Ritrovare gli agi di un appartamento moderno e civile al rientro in paese era piacevole, ma lo era pure vivere in modi più rustici, testando un po’ i limiti della nostra resistenza ai rigori dell’autunno nelle case di campagna del Sud (che, non so se lo sapete, sono le più fredde del mondo). O per lo meno, a me bambino e ragazzo piaceva assai. A tutto il resto della famiglia, tranne di sicuro mia nonna e forse mio padre, no. La vita sociale ne veniva ostacolata: lo struscio in sostanza era sottoposto agli orari degli autobus, o ai passaggi di provvidenziali cugini grandi, o dei vicini “permessi” (eh sì, c’erano anche quelli con cui rapporti di questo tipo non lo erano) e in epoche senza cellulari e senza manco il telefono (in campagna non c’era) gli altri giovani di casa si scocciavano non poco della permanenza in villa (si fa per dire).

Il trasferimento in paese portava con se però impercettibili inconvenienti. Le case moderne non avevano il camino, pertanto la cucina sotto al coppo non era più praticabile e veniva archiviata fino all’estate successiva,  quando cioè coppo e camino sarebbero stati di nuovo disponibili. Si restava così privati dalle ricette invernali della tradizione locale. La privazione non era drastica. Quei piatti si finiva poi sempre per riceverli in dono da qualche zia, qualche comare. Ma nessuno in casa li faceva più per la mancanza di coppo e camino di cui sopra. Né qualcuno si è mai sognato di andare in campagna apposta per usare coppo e camino per preparare qulcosa (nel frattempo surgelandosi per il freddo di cui sopra), né tantomeno  di provare a usare il forno come alternativa. Nella mia famiglia interrompere tradizioni è un atteggiamento ricorrente. E così la ricetta della Pizza di mosto cotto sarebbe andata persa. Sarebbe…

Dunque, tra le cose che non facevamo più c’è la Pizza di mosto cotto, che, lo dice il nome, ha il mosto cotto come ingrediente principale, ma non è una pizza, non nel senso che la nostra lingua dà comunemente al termine. Nel dialetto abruzzese, la parola “pizza” indica qualsiasi cosa sia tondeggiante e  più larga che alta. Può essere dolce (per esempio la Pizza dolce è per noi la classica torta di compleanno) o salata (per esempio la Pizza di granturco). La  Pizza di mosto cotto è un dolce.

Non ne ho trovata mai una ricetta formale, della Pizza di mosto cotto. Neppure in Internet dove ora si trova  (quasi) tutto. In Internet in verità una ce n’è, ma l’ho scritta io anni addietro. Ho visto che da qui è stata poi rispresa  in vari siti,  accompagnata da una fotografia diciamo fantasiosa, visto che nessuno l’ha mai vista, ‘sta Pizza di mosto cotto, si sono sbizzarriti, guardate qua:

Dunque, riprendiamo il filo dopo un momento di raccapriccio divertente. Io non so nemmeno quanti la facciano ancora e se addirittura la si faccia . Io la conosco solo perché nella mia famiglia c’era qualcuno, una cara prozia da qualche anno scomparsa, che la preparava sempre in questo periodo, e sempre me ne teneva  da parte un pezzo per quando tornavo “da ammond’ ” (“da su”), dove ero andato a studiare.  Nelle altre case abruzzesi che frequentavo fuori dall’ambito familiare,  comunque, non mi capitava mai di veder né di sentire parlare della Pizza di mosto cotto, e se ne io parlavo con amici del luogo (ne andavo e ne vado ghiotto) capivo che  non la conoscevano (a differenza di quanto per esempio poteva accadere con le Nevole, che sono il dolce cruciale di Ortona).

La Pizza di mosto cotto in casa mia era ritenuta una leccornia, ma difficile, e impossibile senza il camino. Il camino poi alla fine degli anni Ottanta è arrivato, e con esso il coppo, ma l’atteggiamento non è mutato. Io però ad un certo punto ho chiesto alla prozia di cui sopra di spiegarmi la ricetta. E ho così imparato a fare la Pizza di mosto cotto. Che per essere difficile è difficile, ma non è certo impossibile.

Ho fatto la Pizza di mosto cotto qualche settimana fa, per una cena con amici. Avrei voluto farla nel camino, sotto al coppo. Ma le temperature di quest’autunno erano troppo calde. E per tenere il camino acceso tutto il tempo necessario per usare il coppo, avrei dovuto invitare gli amici a una festa hawaiana, non a una cena abruzzese (il primo era polenta con le salsicce… z’avassèm’ sfiatèt’ de call!). E così ho usato il forno, ché non muore nessuno. Lo usava pure la prozia, e la Pizza viene bene lo stesso (ma col coppo è un’altra cosa. Sempre!).

Per dirla tutta in questa ocasione si è sfiorata la tragedia. Nonostante io qui mi dia arie, le ricette tradizionali abruzzesi non le faccio se non molto di rado (ci ho una vita e un lavoro, del resto), e se la teoria è a posto, la prassi è quella che è. Complice una lunga telefonata con un amico/collega da Vienna, ho tenuto in forno la Pizza forse troppo, facendola colorire in modo eccessivo. Quasi non ci ho dormito la notte. Noi Ortonesi siamo così con tutte le ricette che abbiano il mosto cotto: se non riescono bene, siamo capaci di piangere il morto per generazioni. Capirete poi meglio leggendo gli ingredienti perché. Alla fine è andato tutto bene: nonostante il colore brunito la Pizza era ottima. Ma per sicurezza ho preparato un secondo dessert, una crema di ricotta che gli amici, Pitone incluso, hanno accompagnato alla sublime Pizza di mosto cotto (principianti!)

Pizza di mosto cotto (Pizz’ de mmist’ cott’)

Ingredienti:

  • 1 litro di sottame di mosto cotto di uva bianca “Pergolone” (qui andiamo sul molto difficile. Il mosto cotto di uva “Pergolone” non lo fa quasi più nessuno; il sottame, poi, è una chiccheria suprema. Se avete del mosto cotto, n’importe quoi, usate quello, ché andrà bene. Certo, il sapore sarà diverso…)
  • ½ litro di olio extravergine d’oliva;
  • 1 kg circa di farina di grano duro;
  • noci e mandorle tostate e tagliate a pezzi grandi (quantità a piacere);
  • semi di anice (a piacere);
  • cannella in polvere e in stecchi (2);
  • buccia grattugiata di 3 arance (non trattate, mi raccomando!);
  • liquore all’anice (un dito, se vi va).

Preparazione:

La preparazione è la stessa delle Nevole, ma qui ci si risparmia il traffico del fare le cialde col ferro, di spaccarle bollenti ecc. ecc. ecc. Farete bollire il sottame di mosto cotto con l’olio, le arance (da cui avrete grattugiato la buccia), due stecchi di cannella. Quando raggiungerà un bollore molto vivace lo verserete su una parte della farina, nella quale avrete mescolato la buccia d’arancia grattugiata, i semi di anice, le noci e le mandorle tostate e tritate a pezzettoni e la cannella in polvere (la ricetta prevede 1Kg di farina, ma è meglio iniziare con un po’ di meno, diciamo un 800 gr. circa; se vedete che l’impasto è troppo morbido potrete sempre aggiungerne). Questo procedimento si chiama “incuocere la farina” (si usa in molte altre preparazioni abruzzesi). Suggerisco di farlo a più riprese, rimettendo sempre la pentola con l’olio e il mosto sul fuoco in modo che non smetta mai di bollire.

Lavorarerete l’impasto con un cucchiaio di legno, aggiungerete il liquore e un pizzico di cannella macinata, e passerete ad impastare a mano non appena la temperatura della massa ve lo consentirà. Continuarete a lavorare fino ad ottenere un impasto omogeneo e morbido; non occorrerà lavorarlo a lungo (pensate agli gnocchi per regolarvi. Ah, ma voi comprate solo quelli già fatti? No? solo quelli in busta? Siete senza speranza! ).

Metterete l’impasto in una teglia da forno, dandogli una forma tonda e schiacciata, con uno
spessore di 4 o al massimo 5 cm. Sulla superficie traccerete dei solchi profondi circa ½ centimetro a scacchiera (ogni quadrato dovrà misurare circa 3/4 centimetri per lato).
La ricetta originale prevede a questo la cottura nel camino sotto la cenere (vedi sotto), ma bisogna essere esperti e avere il coppo; vi consiglio perciò di usare il forno.

Cuocerete la Pizza di mosto cotto in un forno molto caldo (200 gradi o poco più) fino a che non si vedrete la superficie diventare più scura (occorrerà circa un’ora). A questo punto sfornerete avvolgerete subito la teglia con 3 o 4 strofinacci e la terrete così, fino a quando non diventerà completamente fredda.

Pizza di mosto cotto sotto al coppo

Per la cottura sotto il coppo è necessario aver acceso il fuoco da alcune ore perché la temperatura del camino sia molto calda, e perché ci sia sempre tanta brace a disposizione. Prima di preparare l’impasto si procederà a scaldare il luogo della cottura ponendo della brace viva sul pavimento della parte del camino in cui si metterà la teglia col coppo. Una volta pronti con l’impasto, si allontanerà la brace, si metterà la teglia nel camino, vi si porrà sopra il coppo, circondandolo e coprendolo di brace (farete attenzione però a non esagerare, altrimenti il dolce brucerà). Una volta, credo, si cuocesse la Pizza mettendola sotto il coppoma senza teglia,  posandola direttamente sul pavimento del camino. Se ci avete il camino adatto, procederete così. Il tempo di cottura è all’incirca quello che occorre col forno di casa. Una volta cotto, togliere la teglia dal fuoco, la avvolgerete in alcuni strofinacci e fino al completo raffreddamento.

La Pizza di mosto cotto, come le Nevole, è bene prepararla uno o due giorni prima di mangiarla. Specie se usate il mosto cotto giusto, è un dolce aromatico, dai sapori complessi, che devono avere il tempo maturare per schiudersi al palato in tutto il loro variegato bouquet (oddio, adesso parlo come un sommellier da fumetto, fermatemi!)

su quella fresca rosa | della guancia amorosa

Se fossimo stati nel 1985, quest’anno avremmo ascoltato i Righeira fino a Natale, temo.  L’estate, infatti, non sta finendo — pare che non lo farà ancora per un po’ — e la canzone da spiaggia non diventerebbe all’improvviso inattuale già alla fine di agosto, come invece accedeva in quegli anni lontani in cui le mezzestagioni andavano ancora di moda. Quest’anno saremmo stati freschi!

Come la musica, anche la cucina estiva ad un certo punto viene in uggia. Piace tutto, e molto, dell’abbondanza di frutta e verdura e della velocità delle preparazioni che i mesi caldi regalano. Ma piacciono anche le preparazioni più meditate dell’autunno, quelle delle finestre chiuse la sera, e delle foschie al mattino presto. Quelle preparazioni insomma che si sanno godere perché l’estate e i suoi rigori salutisti sono finalmente gabbati, con la scusa che, tanto, la frescura permette, anzi, addirittura   e s i g e   tavole più sostanziose. E invece niente, siamo ancora qui tra insalate, pomodori e melanzane, come se domani fosse la festa di San Rocco.

La ricetta di oggi non è adatta al clima di questi giorni. Avrei dovuto aspettare a raccontarla, ma da un po’ i tempi non sono propizi all’aggiornamento frequente del blog, come avrete capito, e non volevo perdere l’occasione che mi si concedeva questa domenica pomeriggio di sole (passata in casa col maldigola, uffa!).

Brasato di guancia

Ingredienti (per 4 persone):

  • 3 guance di bue;
  • 1 cipolla (dolce; io uso, se posso, quelle di Montoro o Alife);
  • 1 carota;
  • spezie (rosmarino, lauro, pepe bianco in grani, pepe nero macinato, noce moscata, cannella, chiodi di garofano), sale;
  • vino rosso di buona qualità;
  • olio extravergine d’oliva.

Preparazione:

condirete le guance con tutte le spezie e il sale massaggiandole in un bacile;  le ricoprirete con il vino rosso e le porrete a marinare in frigorifero, coperte, per 24 ore.

Trascorso questo tempo, scolerete la carne dal vino e dalle spezie/verdure che rimanessero attaccate, e la rosolerete da ambo i lati nell’olio, avendo l’accortezza di usare una pentola dal fondo spesso, di terracotta o di ghisa.

Compiuta questa operazione, aggiungerete il vino della marinatura con le spezie e le verdure, e farete cuocere a pentola coperta e a fuoco dolcissimo per tutto il tempo che occorrerà affinché la carne diventi tenerissima, e il sugo si sia addensato. Farete sempre  attenzione che non attacchi, cambiando di quando in quando il verso di cottura della carne.

Non abbiate paura, non ci vorranno più di un due/tre ore al massimo. Be’? che c’è? vi sembra troppo?  Fuori è più fresco, viene buio prima, e stare a casa a lavorare mentre de temps en temps controllate la pentola sul fuoco non è mica un lavoro forzato, no?

A questo punto il Brasato di guancia è pronto. Non lo consumerete subito, perché in queste preparazioni i sapori hanno bisogno di assestarsi, quindi meglio fare tutto un giorno prima.

Per il pranzo del giorno dopo, spezzerete delle zite (o, ancora meglio, zitoni, ma sempre pasta liscia!), le lesserete e le condirete poi col sugo di brasato, spolverandole con generoso parmigiano. Alle zite al sugo farete seguire come secondo il brasato vero e proprio.

E se poi l’estate non sta ancora finendo, potrete sempre uscire a fare una bella passeggiata per il dopopranzo.

Ciomp!

Fregnaccia, tu mi vai | il genio lusingando

Nelle primissime fasi del teatro d’opera, spesso i libretti e le partiture si stampavano, se si stampavano, solo dopo la rappresentazione. Erano un documento dello spettacolo, un monumento alla memoria di un evento che celebrava avvenimenti o ricorrenze importanti nelle corti principesche à la page, e non (non solo, almeno) un aiuto per seguire il canto in scena o per eseguire l’opera altrove o in altre occasioni.

Come nelle opere di corte del primo Seicento, la ricetta di oggi segue a distanza di un anno  il momento della preparazione. Conserva la memoria dell’evento (la cena con un caro amico e, ovviamente, con il Pitone), ma non serve a seguire, né a eseguire alcunché. Almeno per quest’anno. Se ne riparlerà al massimo la primavera prossima, quando si troveranno di nuovo le borragini tenere di marzo.  Mi piace assai l’idea di stare scrivendo un monumento alla memoria: aiuta a sentirmi sia à la page sia un po’ di antico regime, il che non guasta.

Fregnacce con ripieno di borragine e ricotta

Ingredienti

Per la pasta

  • farina di grano duro
  • uova
  • acqua
  • sale

Per il ripieno

  • foglie tenere di borragine
  • ricotta freschissima
  • uova
  • parmigiano e pecorino grattugiati
  • noce moscata
  • sale

Preparazione

Per la pasta. Con la farina formerete una fontana sulla spianatoia, al centro della quale romperete le uova e aggiungerete del sale. Dovrete calcolare all’incirca un uovo ogni cento grammi di farina. Avrete notato che non ho indicato dosi. Dipende tutto da che farina usate, dalla grandezza delle uova, dall’umidità, dal vento, dall’angolo di inclinazione di Marte rispetto a Venere, della velocità di Mercurio e così via. Dovrete stare accorte/i acché l’impasto sia malleabile, ma non troppo morbido.

Aiutandovi con la forchetta, inizierete ad incorporare le uova nella farina, procedendo dagli strati più interni della fontana. Poi passerete ad impastare con le mani, e non smetterete fino a che non vi verranno i bicipiti di Juri Chechi.

Porrete a riposare la pasta sotto un bacile di ceramiche per un po’ (regolatevi voi), e poi la stenderete con un mattarello, fino ad ottenere una sfoglia sottilissima.

Ecco, qui arriva la sorpresa: il mio monumento conserva la memoria di un evento non riuscitissimo. Avevo finito la farina di grano duro  portata dagli Abruzzi, e, come al solito, non ne ho trovata nei negozi qui al nord. Ho usata, allora, una farina di grano duro macinata a pietra nonsocché nonsoquanto, direbbero a Piombino, che però non si è lasciata stendere sottile come avrebbe dovuto. Mannaggiallamiseria! A quel punto era troppo tardi, e quindi mi sono tenuto la sfoglia così com’è uscita.

Con un carratore (scil. rotella da pasta), taglierete dei quadrati di pasta di circa dieci centimetri di lato. Dopo averli sbollentati, li porrete ad asciugare su strofinacci di lino. I miei erano tessuti a mano al telaio, non da suore cieche in notti di luna piena, purtroppo. Voi potrete fare anche senza.

Per il ripieno. Monderete, laverete e sbollenterete le foglie di borragine, poi le scolerete strizzandole con cura. Una volta fredde, le triterete finemente e le amalgamerete con la ricotta freschissia, alla quale aggiungerete la miscela di parmigiano e pecorino grattugiati, l’uovo o, al massimo, due uova, un po’ di sale (attenzione, assaggiate, perché se il pecorino è saporito potrebbe non servirne) e una grattata di noce moscata. Le dosi?  a occhio. Il ripieno deve essere morbido.

Porrete un cucchiaio di ripieno all’interno dei quadrati di pasta, ripiegando questi a metà, e poi ancora una volta: le Fregnacce saranno cioè aperte da due lati.

Procederete cos’ fino alla fine della pasta/ripieno.

Una volta terminato, metterete le Fregnacce ottenute in una pirofila precedentemente imburrata.

Per il condimento avete due scelte. Secondo me la cosa migliore è preparare del buon ragout meridionale, con cui coprirete le Fregnacce, spolverandole generosamente con parmigiano e pecorino grattugiati e passandole in forno per una bella doratura in superficie.

Oppure, come ho fatto in questa occasione, porrete su ogni fregnaccia una noce di ottimo burro (qui al nord ce ne sono di eccellenti), sempre spolverando con parmigiano e percorino grattugiati, e facendo dorare in forno.

Ciomp!

Le polente e le cose

A ripeterle le cose poi diventano vere.  A furia dare del “polentone” a chi abita al Nord, si è finito per fare della polenta un cibo prettamente settentrionale. E ad entrambe le latitudini ci si è creduto, scordandosi così che di polente era ed è piena l’Italia, anche dove ci si è costruita un’identità basata principalmente sui maccheroni.

Nella mia storia gastronomica familiare sono presenti tre tradizioni di polente: quella abruzzese, quella marchigiana, e, da ultimo, quella lombarda. Tra loro ci sono differenze, sia per tipo di farine, ingredienti e condimenti, sia, in parte come conseguenza, per funzione.  La polenta abruzzese, fatta con la farina di granturco ‘fioretto’ e di consistenza morbida, serve in genere come primo piatto. Nelle Marche, però, con lo stesso tipo di farine si fa anche una polenta molto soda (in questo caso si chiama «lo polendo’») da accompagnare, per esempio, allo stoccafisso in umido, uso questo simile a quello della polenta lombarda. Che però usa soprattutto una farina di granturco macinata grossa. Alle mie prime esperienze di polenta lombarda lo chock culturale, ricordo, fu notevolissimo: conoscendo solo la polenta di ‘fioretto’ pensavo che nelle osterie del Nord si approfittassero di noi foresti, perché servivano sempre e solo polente con i  “grumi”, quindi, per me, venute male. Vabbe’, poi dopo ho capito.

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La più distante nella mia memoria gastronomica era la polenta marchigiana, svanita dall’orizzonte della cucina di casa con la scomparsa prematura della mia nonna materna: nessuno aveva imparato a cucinare come faceva lei. Sebbene a tutti  mancassero le sue preparazioni, nessuno di noi ci si era mai davvero messo a cerecare di  rifarle. Il tacito consenso era che non ne valesse la pena, perché, senza le dosi precise e senza poter più vedere la nonna in azione, sarebbe stato impossibile ottenere risultati soddisfacenti.

Però, mi dicevo, la cucina di mia nonna era una tipica cucina popolare, e mi pareva assai strano che proprio non ci si potesse provare almeno a imitarla. Sono passati anni prima di arrivare a mettere i pensieri in pratica. Il problema era che avevo solo i ricordi a guidarmi, perché, porprio per essere così popolare, la sua cucina non veniva registrata neppure dai più seri libri di cucina regionale (come la somma Anna Gosetti della Salda). D’altro canto e che sarebbe mai potuto succedere? Al massimo un inguacchio; tanto, inguacchio più inguacchio meno…

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Polenta a riso

Ingredienti (per la polenta):

  • riso
  • farina di grano tenero (io uso sia la 1 sia la 0, vanno bene anche la 2 o la 00, che è quella che usava la nonna);
  • acqua
  • sale

Ingredienti (per il condimento):

  • sugo di pomodoro (ma sul condimento tornerò dopo)

 

Preparazione

Avrete notato che non ci sono dosi. Non servono. Di riso ne userete la quantità che occorre per il numero dei commensali e della fame che questi hanno (io per il mio appetito conto un cinque cucchiai circa). Per quanto riguarda la farina, anche per questa dovrete regolarvi a occhio e mani.

Dunque, metterete a bollire l’acqua. A bollore iniziato, salerete e verserete il riso. Dopo la ripresa del bollore, toglierete dal fuoco e inizierete a versare la farina a pioggia, avendo cura di mescolare bene per evitare la formazione di grumi (quelli veri, non quelli che a me parevano tali nella polenta lombarda).

imageContinuerete a versare farina fino a quando non sentirete che il tutto inizia ad addensarsi e a fare resistenza al vostro rimestare. Fate attenzione a non mettere troppo poca farina. La polenta alla fine si forma sempre, ma forse è meglio non passare un giorno intero a girare col cucchiaio nella pentola, che dite?

Una volta compiuta l’operazione, riporrete la pentola sul fuoco, mescolando di tanto in tanto, come fareste con la polenta. Continuerete fino a quando la polenta non si sarà del tutto addensata. A quel punto distribuirete nei piatti, condendo con del sugo al pomodoro e formaggio grattugiato.

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L’ultima volta che ho preparato la Polenta a riso è stato per il pranzo di Pasqua del 2016. Questa polenta non è un piatto delle feste, men che meno di quelle comandate. A pranzo con noi quel giorno c’era però chi non avrebbe potuto mangiare altro, e ci piaceva poter avere a tavola qualcosa che tutti potessero condividere. Ecco allora l’idea di una polenta esotica in Lombardia, la Polenta a riso, che ha incuriosito tutti i commensali (tutti lombardi all’infuori di me).

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Per l’occasione festiva il sugo al pomodoro sembrava però proprio poca cosa. Allora, ho pensato di sostituirlo con un bel ragù abruzzese, quello con tre carni diverse (suina, bovina e ovina), che, se non proprio della Pasqua, è almeno il sugo della domenica.

Ragù

Ingedienti:

  • carne bovina (io ho usato il cappello del prete)
  • luganega (ci sarebbero volute le salsicce, ma in Lombardia…)
  • polpa di agnello
  • una cipolla
  • due carote
  • una costa di sedano
  • qualche spicchio d’aglio rosso vestito
  • qualche foglia di prezzemolo
  • chiodi di garofano
  • passata di pomodoro (degna di questo nome)
  • olio extra vergine d’oliva
  • sale
  • pepe
  • vino bianco

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Preparazione

Metterete le salsicce/luganega a sgrassare cuocendole in poca acqua e vino bianco. Nel frattempo porrete le altre carni in una pentola con acqua fredda, farete alzare il bollore e spegnerete. Si sarà formata una spessa schiuma bianca piena di impurità. Scolerete e laverete bene la carne sotto l’acqua fredda e la farete asciugare.

imageSteccherete la carne bovina con spicchi d’aglio rosso vestiti avvolti in foglie di prezzemolo e chiodi di garofano. Poi inizierete a rosolarla nell’olio in una pentola adatta, facendola dorare da tutti i lati.

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Quando i vicini saranno lì lì per chiamare i pompieri, aggiungerete la carne d’agnello, la luganega/salsicce per terminare la rosolatura. A questo punto sfumerete col vino bianco, aggiungerete le verdure tritate sottili, che avete soffritto a parte, poi le spezie e infine la passata di pomodoro fino a ricoprire la carne. Abbasserete la fiamma oltre il minimo e lascerete sobbollire per almeno quattro ore (il mio ragù ha sobbollito per sette ore circa). Ecco fatto.

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Farete raffreddare il tutto (il ragù si prepara il giorno prima di usarlo). Libererete poi la carne dal sugo, affetterete il pezzo di manzo e lo porrete con il resto delle carni di nuovo nel sugo.

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Prima di usare il sugo per condire (la pasta, la polenta, la polenta a riso) metterete la carne, calda e intrisa di sugo, in un piatto da portata coperto, in attesa di essere servita.

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Ciomp!