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Una pizza a quest’ora?

Tra poco è ora di cena, e questa non è ora di pizze. Non lo è nella tradizione gastronomica della casa in cui sono cresciuto, che oltre che “gastro” è molto “nomica”, nel senso che è regolata da leggi e consuetudini ataviche e soprattutto rigorose, rispettate sempre con attenta scrupolosità. Tra queste c’è quella che riguarda la pizza di cui vi parlo oggi: non si mangia mai a cena; solo a pranzo. Non è la pizza a cui state pensando: in Abruzzo tante cose portano il nome “pizza”. Questa è una di quelle. È la cosiddetta “pizza ggialla” o “pizz’ d’ ‘randinnjie,” cioè “pizza di granturco.” Si accompagna alle verdure, o allo stoccafisso, che a casa dei miei si mangiano solo, e dico SOLO, a pranzo. La pizza convenzionale, invece, si mangia solo, e dico SOLO a cena. Come del resto la verdura si mangia il lunedì, il brodo  il sabato, il ragù solo il giovedì e la domenica, la pasta solo a pranzo e potrei continuare. Dal piatto che ci si trova davanti a casa mia (ma la mia famiglia d’origine non è certo un’eccezione) si capisce il giorno della settimana.

Dunque, dicevo della pizza ggialla che si mangia solo a pranzo, specie di lunedì, che è il giorno della  verdura. È di una semplicità disarmante, ma proprio per questo nasconde qualche insidia. Gli ingredienti sono pochissimi. Ma non ci sono dosi: tutto si fa a occhio, “a sentimento” —  ricordando che   in Abruzzese “sentimento” significa insieme “sensibilità” e “intelligenza”; dire di qualcuno (dirlo a qualcuno sarebbe un filo pericoloso per chi lo fa) che non ha manco un po’ di sentimento equivale a dargli dell’ottuso.

Contintuo a divagare. Ecco, gli ingredienti sono questi:

Ingredienti

  • 2 parti di farina di granturco tipo “fioretto” (cioè quella sottile, non quella bramata)
  • 1 parte di farina di grano duro. Non è la semola, bensì la farina: è più sottile. Potete anche farla tutta di granturco, ma con le due farine è migliore. Se avete solo la semola, usate quella. Io uso una tazza da the come unità di misura.
  • sale (quanto basta, e quanto vi piace)
  • acqua
  • olio d’oliva buono

Preparazione

Mescolerete accuratamente le farine e il sale in un bacile. Porrete intanto l’acqua a bollire. La quantità dipende da quella delle farine; per quattro persone (cioè tre tazze da the di farine) io ne metto a bollire circa due litri.

Quando l’acqua bolle in modo intenso, inizierete a versarne nel bacile sulle farine, mescolando con un cucchiaio di legno. Procederete con poca acqua alla volta, riponendo sempre la pentola sul fuoco acceso perché deve essere sempre bollente. Versando e mescolando, otterrete in breve un impasto malleabile. Fermatevi con l’acqua e cercate di impastare anche se non tutta la farina sarà bagnata. Scotta, sì, lo so, ci vorrebbero le mani da contadini che pochi ormai hanno, ma con un po’ di pazienza ci si riesce. Formerete una palla, che schiaccerete ottenendo unaspecie di focaccia alta almeno due dita.

Cottura

La pizza ggialla si cuoce nel camino sotto al coppo che ho spiegato qui.  Ma si cuoce anche al forno, o in padella. Vi spiego l’ultima, la più veloce. Prenderete una padella, la ungerete e la porrete sul fuoco a fiamma viva, meglio se con uno spargifiamma. Quando sarà ben calda, ci porrete dentro la pizza e la lascerete rosolare, fino a quando non sentirete un bel profumo di arrostito e leggerissimamente bruciato. A quel punto girerete la pizza, fancendola rosolare dall’altro lato. Dovrà formarsi una bella crosta croccante.

Quando avrete ottenuto l’effetto, la pizza sarà pronta. Potrete accompagnarla alle verdure in umido (scavando la parte morbida e mescolandola ad esse, e mangiando quella croccante a mo’ di pane), allo stoccafisso in umido, o a quello che vi pare. Funziona benissimo come sostituto del pane, e dura per qualche giorno.

In giorni come questi, quando anche il lievito di birra è un’araba fenice, la pizza ggialla potrà essere, spero, d’aiuto.

 

 

La liva bianca, la liva nera

Da bambino non capivo mai bene i testi delle canzoni, delle canzoni italiane intendo. C’erano parole o espressioni che non conoscevo, cosa che capitava spesso – avevo tre, quattro anni al massimo – ma c’erano anche parole che capivo male o a modo mio, e che modificavo in modo il più economico possibile per ricondurle a un minimo di senso compiuto, o che a me pareva tale. Molti anni dopo avrei scoperto che questo è quello che fanno normalmente i filologi con i testi resi irriconoscibili dai danni del tempo. Ero io già filologo precoce o la filologia, come la capacità di galleggiare, è dentro di noi dalla nascita e poi si perde per doverla a fatica reimparare in modo cosciente dopo?

Insomma, i testi delle canzoni li capivo come secondo me avevano senso, e li cantavo come li capivo o li ricostruivo. Cantavo spesso, spessissimo. Lo facevo per intrattenermi quando giocavo da solo (lo faccio anche adesso, anche se non gioco), lo facevo, anzi, lo facevamo insieme ai “grandi”, che nella mia famiglia sono sempre stati canterini. In queste situazioni però, a volte, cascava l’asino: le mie ricostruzioni “filologiche” venivano messe alla prova delle fonti autorevoli che mi facevano fare la figura del piccolo Beckmesser. Una delle più ridicole, anche perché mosse per lungo tempo l’ilarità di tutti, fu la mia versione di “La riva bianca, la riva nera” di Iva Zanicchi, una canzone del 1971.

L’avevo sentita, forse a Canzonissima, e conservo ancora nella memoria anche un’immagine della trasmissione. Mi  era piaciuta e la cantavo spesso. Cantavo  «però sul fiume passa la frontiera | la liva bianca, la liva nera»: sì, la cantavo così. Non sapevo cosa fosse la frontiera – avevo tre anni – e non vivevo in luoghi in cui ci fosse dimestichezza con i corsi d’acqua. C’era e c’è solo il mare, ma quello di riva ne aveva visibilmente una sola. La «riva» per me non significava nulla, nulla almeno che avesse una sua controparte, qualcosa di simile e opposto insieme. Ce l’aveva invece «la liva», «la liv’», come in famiglia tutti chiamavamo «le olive» che noi e i nostri parenti coltivavamo (e coltiviamo), parlando in dialetto o in un Italiano (molto) regionalizzato. La «la liva» sì era o bianca o nera, e il  confronto tra le due poteva essere drammatico come quello tra le «live» della canzone, anche se non c’era per questo bisogno della frontiera, che per me, comunque, allora non significava nulla: secondo il lessico filologico era cioè una crux desperationis, una corruttela grave e non sanabile. «La liva bianca» era quella buona, che a me piaceva ssai; «la liva nera», invece, quella cattiva. Era amara, e non mi piaceva per niente. Con la «liva» cantata al posto della «riva», il conflitto tra le rive fatali diveniva qualcosa di finalmente comprensibile, per me altrettanto fatale,  perché concreto ed esperito tutte le volte che mi avevano detto di mangiare le olive nere. «La liva bianca, la liva nera» finì per essere uno dei tormentoni buffi della mia infanzia.

La «liva nera», quella vera, invece sarebbe sparita presto. Nel senso che avremmo fatto sempre uso (parco, ad esere onesti) di olive nere, ma «comprate» nonostante le olive le coltivassimo noi. Come i flash in bianco e nero di Iva Zanicchi, ho alcuni falsh, ma a colori, di grandi barattoli  di «liva nera» che giravano per casa, per lo più nelle dispense, con dentro granelli di sale grosso e frammenti di buccia d’arancia. Ma sono spariti presto, da me punto rimpianti, visto che le olive nere sono rientrate nel mio orizzonte gastronomico solo molti anni dopo.

Lo scorso novembre ero a Lucca, un sabato pomeriggio. Lì da un fruttivendolo ottimo del centro ho trovato le olive nere che un cartello diceva «amare», e così ho provato a fare le olive col sale grosso e le bucce d’arancia, che ricordavo. Ho fatto una navigata su internet e poi ho fatto di testa mia. Poi mia zia mi ha confermato che era proprio quello che faceva la nonna.  Si sa, i bravi filologi ricostruiscono i testi con ipotesi che poi nuove scoperte confermano come “giuste”, se non additittura “autentiche”. E scusate se è poco.

Olive nere sotto sale

ingredienti

  • olive nere (cioè mature. Anni fa il Pitone – quoque! – mi chiese se in Abruzzo avessimo piante di olive verdi o nere, pensando che le olive fossero come l’uva. Non ho spauto frenarmi e sono scoppiato a ridere, e l’ho preso in giro per anni: non credevo che una domanda del genere fosse neppure pensabile. Ecco, che non vi vengano strane curiosità, solo questo);
  • sale grosso;
  • buccia di arance (non trattate) e di limoni (idem);
  • spezie (a piacere; io ho usato: semi di finocchio, lauro, origano, maggiorana, timo, lavanda, tutte tritate finemente, tranne i semi di finocchio, che ho lasciato interi).

preparazione

Laverete le olive e le asciugherete con cura. Quando saranno asciutte, le porrete a strati in un barattolo capiente, alternandole con strati di sale,. buccia di agrumi e spezie. Procederete così fino a quando raggiungerete l’ultimo strato di sale e spezie.

Chiuderete il barattolo con uno strofinaccio e lo porrete in un luogo della casa non troppo riscaldato. Nel giro di qualche giorno, per effetto del sale le olive cominceranno a tirare fuori liquido. A questo punto toglierete lo strofinaccio, chiuderete il barattolo, e lo rovescerete, lasaciandolo a testa in giù per qualche ora. Poi ri rimetterete in posizione dritta e lo agiterete qualche volta.

Continurete ad capovolgere e agitare il barattolo quante volte vi sarà possibile. Lo farete per circa due settimane, fino quando cioè alla prova assaggio capirete che le olive hanno perso del tutto l’amaro.

A questo punto prenderete le olive mondandole del sale in eccesso (non, se possibile, delle spezie e le bucce degli agrumi, che anzi, mondate del sale in eccesso, terrete da parte) con l’aiuto di un colapasta dalle maglie non troppo fitte e le porrete in un bacile con le bucce. Qui le condirete con un po’ d’olio extravergine di oliva, mescolandole con attenzione.

Una vola condite e mescolate, metterete le olive in barattoli di vetro,  e le conserverete a) in una cantina fredda; b) in frigorifero (come me, che non ho una cantina fredda).

Ecco, la «liva nera» è pronta per il consumo. E sarà buonissima: non salata e ricca di aromi.

Ciomp!

Pizze degli avi miei!

Nelle prime settimane di ottobre, dopo aver vendemmiato e fatto il vino, ci trasferivamo di nuovo in paese. In campagna avevamo trascorso l’estate, nella casa dei miei nonni paterni, senza riscaldamento, solo con un camino nella cucina, senza acqua calda e col bagno fuori. Grande, per carità, il bagno, ma fuori. E senza acqua calda. Ah, questo l’ho già detto.  Ritrovare gli agi di un appartamento moderno e civile al rientro in paese era piacevole, ma lo era pure vivere in modi più rustici, testando un po’ i limiti della nostra resistenza ai rigori dell’autunno nelle case di campagna del Sud (che, non so se lo sapete, sono le più fredde del mondo). O per lo meno, a me bambino e ragazzo piaceva assai. A tutto il resto della famiglia, tranne di sicuro mia nonna e forse mio padre, no. La vita sociale ne veniva ostacolata: lo struscio in sostanza era sottoposto agli orari degli autobus, o ai passaggi di provvidenziali cugini grandi, o dei vicini “permessi” (eh sì, c’erano anche quelli con cui rapporti di questo tipo non lo erano) e in epoche senza cellulari e senza manco il telefono (in campagna non c’era) gli altri giovani di casa si scocciavano non poco della permanenza in villa (si fa per dire).

Il trasferimento in paese portava con se però impercettibili inconvenienti. Le case moderne non avevano il camino, pertanto la cucina sotto al coppo non era più praticabile e veniva archiviata fino all’estate successiva,  quando cioè coppo e camino sarebbero stati di nuovo disponibili. Si restava così privati dalle ricette invernali della tradizione locale. La privazione non era drastica. Quei piatti si finiva poi sempre per riceverli in dono da qualche zia, qualche comare. Ma nessuno in casa li faceva più per la mancanza di coppo e camino di cui sopra. Né qualcuno si è mai sognato di andare in campagna apposta per usare coppo e camino per preparare qulcosa (nel frattempo surgelandosi per il freddo di cui sopra), né tantomeno  di provare a usare il forno come alternativa. Nella mia famiglia interrompere tradizioni è un atteggiamento ricorrente. E così la ricetta della Pizza di mosto cotto sarebbe andata persa. Sarebbe…

Dunque, tra le cose che non facevamo più c’è la Pizza di mosto cotto, che, lo dice il nome, ha il mosto cotto come ingrediente principale, ma non è una pizza, non nel senso che la nostra lingua dà comunemente al termine. Nel dialetto abruzzese, la parola “pizza” indica qualsiasi cosa sia tondeggiante e  più larga che alta. Può essere dolce (per esempio la Pizza dolce è per noi la classica torta di compleanno) o salata (per esempio la Pizza di granturco). La  Pizza di mosto cotto è un dolce.

Non ne ho trovata mai una ricetta formale, della Pizza di mosto cotto. Neppure in Internet dove ora si trova  (quasi) tutto. In Internet in verità una ce n’è, ma l’ho scritta io anni addietro. Ho visto che da qui è stata poi rispresa  in vari siti,  accompagnata da una fotografia diciamo fantasiosa, visto che nessuno l’ha mai vista, ‘sta Pizza di mosto cotto, si sono sbizzarriti, guardate qua:

Dunque, riprendiamo il filo dopo un momento di raccapriccio divertente. Io non so nemmeno quanti la facciano ancora e se addirittura la si faccia . Io la conosco solo perché nella mia famiglia c’era qualcuno, una cara prozia da qualche anno scomparsa, che la preparava sempre in questo periodo, e sempre me ne teneva  da parte un pezzo per quando tornavo “da ammond’ ” (“da su”), dove ero andato a studiare.  Nelle altre case abruzzesi che frequentavo fuori dall’ambito familiare,  comunque, non mi capitava mai di veder né di sentire parlare della Pizza di mosto cotto, e se ne io parlavo con amici del luogo (ne andavo e ne vado ghiotto) capivo che  non la conoscevano (a differenza di quanto per esempio poteva accadere con le Nevole, che sono il dolce cruciale di Ortona).

La Pizza di mosto cotto in casa mia era ritenuta una leccornia, ma difficile, e impossibile senza il camino. Il camino poi alla fine degli anni Ottanta è arrivato, e con esso il coppo, ma l’atteggiamento non è mutato. Io però ad un certo punto ho chiesto alla prozia di cui sopra di spiegarmi la ricetta. E ho così imparato a fare la Pizza di mosto cotto. Che per essere difficile è difficile, ma non è certo impossibile.

Ho fatto la Pizza di mosto cotto qualche settimana fa, per una cena con amici. Avrei voluto farla nel camino, sotto al coppo. Ma le temperature di quest’autunno erano troppo calde. E per tenere il camino acceso tutto il tempo necessario per usare il coppo, avrei dovuto invitare gli amici a una festa hawaiana, non a una cena abruzzese (il primo era polenta con le salsicce… z’avassèm’ sfiatèt’ de call!). E così ho usato il forno, ché non muore nessuno. Lo usava pure la prozia, e la Pizza viene bene lo stesso (ma col coppo è un’altra cosa. Sempre!).

Per dirla tutta in questa ocasione si è sfiorata la tragedia. Nonostante io qui mi dia arie, le ricette tradizionali abruzzesi non le faccio se non molto di rado (ci ho una vita e un lavoro, del resto), e se la teoria è a posto, la prassi è quella che è. Complice una lunga telefonata con un amico/collega da Vienna, ho tenuto in forno la Pizza forse troppo, facendola colorire in modo eccessivo. Quasi non ci ho dormito la notte. Noi Ortonesi siamo così con tutte le ricette che abbiano il mosto cotto: se non riescono bene, siamo capaci di piangere il morto per generazioni. Capirete poi meglio leggendo gli ingredienti perché. Alla fine è andato tutto bene: nonostante il colore brunito la Pizza era ottima. Ma per sicurezza ho preparato un secondo dessert, una crema di ricotta che gli amici, Pitone incluso, hanno accompagnato alla sublime Pizza di mosto cotto (principianti!)

Pizza di mosto cotto (Pizz’ de mmist’ cott’)

Ingredienti:

  • 1 litro di sottame di mosto cotto di uva bianca “Pergolone” (qui andiamo sul molto difficile. Il mosto cotto di uva “Pergolone” non lo fa quasi più nessuno; il sottame, poi, è una chiccheria suprema. Se avete del mosto cotto, n’importe quoi, usate quello, ché andrà bene. Certo, il sapore sarà diverso…)
  • ½ litro di olio extravergine d’oliva;
  • 1 kg circa di farina di grano duro;
  • noci e mandorle tostate e tagliate a pezzi grandi (quantità a piacere);
  • semi di anice (a piacere);
  • cannella in polvere e in stecchi (2);
  • buccia grattugiata di 3 arance (non trattate, mi raccomando!);
  • liquore all’anice (un dito, se vi va).

Preparazione:

La preparazione è la stessa delle Nevole, ma qui ci si risparmia il traffico del fare le cialde col ferro, di spaccarle bollenti ecc. ecc. ecc. Farete bollire il sottame di mosto cotto con l’olio, le arance (da cui avrete grattugiato la buccia), due stecchi di cannella. Quando raggiungerà un bollore molto vivace lo verserete su una parte della farina, nella quale avrete mescolato la buccia d’arancia grattugiata, i semi di anice, le noci e le mandorle tostate e tritate a pezzettoni e la cannella in polvere (la ricetta prevede 1Kg di farina, ma è meglio iniziare con un po’ di meno, diciamo un 800 gr. circa; se vedete che l’impasto è troppo morbido potrete sempre aggiungerne). Questo procedimento si chiama “incuocere la farina” (si usa in molte altre preparazioni abruzzesi). Suggerisco di farlo a più riprese, rimettendo sempre la pentola con l’olio e il mosto sul fuoco in modo che non smetta mai di bollire.

Lavorarerete l’impasto con un cucchiaio di legno, aggiungerete il liquore e un pizzico di cannella macinata, e passerete ad impastare a mano non appena la temperatura della massa ve lo consentirà. Continuarete a lavorare fino ad ottenere un impasto omogeneo e morbido; non occorrerà lavorarlo a lungo (pensate agli gnocchi per regolarvi. Ah, ma voi comprate solo quelli già fatti? No? solo quelli in busta? Siete senza speranza! ).

Metterete l’impasto in una teglia da forno, dandogli una forma tonda e schiacciata, con uno
spessore di 4 o al massimo 5 cm. Sulla superficie traccerete dei solchi profondi circa ½ centimetro a scacchiera (ogni quadrato dovrà misurare circa 3/4 centimetri per lato).
La ricetta originale prevede a questo la cottura nel camino sotto la cenere (vedi sotto), ma bisogna essere esperti e avere il coppo; vi consiglio perciò di usare il forno.

Cuocerete la Pizza di mosto cotto in un forno molto caldo (200 gradi o poco più) fino a che non si vedrete la superficie diventare più scura (occorrerà circa un’ora). A questo punto sfornerete avvolgerete subito la teglia con 3 o 4 strofinacci e la terrete così, fino a quando non diventerà completamente fredda.

Pizza di mosto cotto sotto al coppo

Per la cottura sotto il coppo è necessario aver acceso il fuoco da alcune ore perché la temperatura del camino sia molto calda, e perché ci sia sempre tanta brace a disposizione. Prima di preparare l’impasto si procederà a scaldare il luogo della cottura ponendo della brace viva sul pavimento della parte del camino in cui si metterà la teglia col coppo. Una volta pronti con l’impasto, si allontanerà la brace, si metterà la teglia nel camino, vi si porrà sopra il coppo, circondandolo e coprendolo di brace (farete attenzione però a non esagerare, altrimenti il dolce brucerà). Una volta, credo, si cuocesse la Pizza mettendola sotto il coppoma senza teglia,  posandola direttamente sul pavimento del camino. Se ci avete il camino adatto, procederete così. Il tempo di cottura è all’incirca quello che occorre col forno di casa. Una volta cotto, togliere la teglia dal fuoco, la avvolgerete in alcuni strofinacci e fino al completo raffreddamento.

La Pizza di mosto cotto, come le Nevole, è bene prepararla uno o due giorni prima di mangiarla. Specie se usate il mosto cotto giusto, è un dolce aromatico, dai sapori complessi, che devono avere il tempo maturare per schiudersi al palato in tutto il loro variegato bouquet (oddio, adesso parlo come un sommellier da fumetto, fermatemi!)

Fregnaccia, tu mi vai | il genio lusingando

Nelle primissime fasi del teatro d’opera, spesso i libretti e le partiture si stampavano, se si stampavano, solo dopo la rappresentazione. Erano un documento dello spettacolo, un monumento alla memoria di un evento che celebrava avvenimenti o ricorrenze importanti nelle corti principesche à la page, e non (non solo, almeno) un aiuto per seguire il canto in scena o per eseguire l’opera altrove o in altre occasioni.

Come nelle opere di corte del primo Seicento, la ricetta di oggi segue a distanza di un anno  il momento della preparazione. Conserva la memoria dell’evento (la cena con un caro amico e, ovviamente, con il Pitone), ma non serve a seguire, né a eseguire alcunché. Almeno per quest’anno. Se ne riparlerà al massimo la primavera prossima, quando si troveranno di nuovo le borragini tenere di marzo.  Mi piace assai l’idea di stare scrivendo un monumento alla memoria: aiuta a sentirmi sia à la page sia un po’ di antico regime, il che non guasta.

Fregnacce con ripieno di borragine e ricotta

Ingredienti

Per la pasta

  • farina di grano duro
  • uova
  • acqua
  • sale

Per il ripieno

  • foglie tenere di borragine
  • ricotta freschissima
  • uova
  • parmigiano e pecorino grattugiati
  • noce moscata
  • sale

Preparazione

Per la pasta. Con la farina formerete una fontana sulla spianatoia, al centro della quale romperete le uova e aggiungerete del sale. Dovrete calcolare all’incirca un uovo ogni cento grammi di farina. Avrete notato che non ho indicato dosi. Dipende tutto da che farina usate, dalla grandezza delle uova, dall’umidità, dal vento, dall’angolo di inclinazione di Marte rispetto a Venere, della velocità di Mercurio e così via. Dovrete stare accorte/i acché l’impasto sia malleabile, ma non troppo morbido.

Aiutandovi con la forchetta, inizierete ad incorporare le uova nella farina, procedendo dagli strati più interni della fontana. Poi passerete ad impastare con le mani, e non smetterete fino a che non vi verranno i bicipiti di Juri Chechi.

Porrete a riposare la pasta sotto un bacile di ceramiche per un po’ (regolatevi voi), e poi la stenderete con un mattarello, fino ad ottenere una sfoglia sottilissima.

Ecco, qui arriva la sorpresa: il mio monumento conserva la memoria di un evento non riuscitissimo. Avevo finito la farina di grano duro  portata dagli Abruzzi, e, come al solito, non ne ho trovata nei negozi qui al nord. Ho usata, allora, una farina di grano duro macinata a pietra nonsocché nonsoquanto, direbbero a Piombino, che però non si è lasciata stendere sottile come avrebbe dovuto. Mannaggiallamiseria! A quel punto era troppo tardi, e quindi mi sono tenuto la sfoglia così com’è uscita.

Con un carratore (scil. rotella da pasta), taglierete dei quadrati di pasta di circa dieci centimetri di lato. Dopo averli sbollentati, li porrete ad asciugare su strofinacci di lino. I miei erano tessuti a mano al telaio, non da suore cieche in notti di luna piena, purtroppo. Voi potrete fare anche senza.

Per il ripieno. Monderete, laverete e sbollenterete le foglie di borragine, poi le scolerete strizzandole con cura. Una volta fredde, le triterete finemente e le amalgamerete con la ricotta freschissia, alla quale aggiungerete la miscela di parmigiano e pecorino grattugiati, l’uovo o, al massimo, due uova, un po’ di sale (attenzione, assaggiate, perché se il pecorino è saporito potrebbe non servirne) e una grattata di noce moscata. Le dosi?  a occhio. Il ripieno deve essere morbido.

Porrete un cucchiaio di ripieno all’interno dei quadrati di pasta, ripiegando questi a metà, e poi ancora una volta: le Fregnacce saranno cioè aperte da due lati.

Procederete cos’ fino alla fine della pasta/ripieno.

Una volta terminato, metterete le Fregnacce ottenute in una pirofila precedentemente imburrata.

Per il condimento avete due scelte. Secondo me la cosa migliore è preparare del buon ragout meridionale, con cui coprirete le Fregnacce, spolverandole generosamente con parmigiano e pecorino grattugiati e passandole in forno per una bella doratura in superficie.

Oppure, come ho fatto in questa occasione, porrete su ogni fregnaccia una noce di ottimo burro (qui al nord ce ne sono di eccellenti), sempre spolverando con parmigiano e percorino grattugiati, e facendo dorare in forno.

Ciomp!

Le polente e le cose

A ripeterle le cose poi diventano vere.  A furia dare del “polentone” a chi abita al Nord, si è finito per fare della polenta un cibo prettamente settentrionale. E ad entrambe le latitudini ci si è creduto, scordandosi così che di polente era ed è piena l’Italia, anche dove ci si è costruita un’identità basata principalmente sui maccheroni.

Nella mia storia gastronomica familiare sono presenti tre tradizioni di polente: quella abruzzese, quella marchigiana, e, da ultimo, quella lombarda. Tra loro ci sono differenze, sia per tipo di farine, ingredienti e condimenti, sia, in parte come conseguenza, per funzione.  La polenta abruzzese, fatta con la farina di granturco ‘fioretto’ e di consistenza morbida, serve in genere come primo piatto. Nelle Marche, però, con lo stesso tipo di farine si fa anche una polenta molto soda (in questo caso si chiama «lo polendo’») da accompagnare, per esempio, allo stoccafisso in umido, uso questo simile a quello della polenta lombarda. Che però usa soprattutto una farina di granturco macinata grossa. Alle mie prime esperienze di polenta lombarda lo chock culturale, ricordo, fu notevolissimo: conoscendo solo la polenta di ‘fioretto’ pensavo che nelle osterie del Nord si approfittassero di noi foresti, perché servivano sempre e solo polente con i  “grumi”, quindi, per me, venute male. Vabbe’, poi dopo ho capito.

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La più distante nella mia memoria gastronomica era la polenta marchigiana, svanita dall’orizzonte della cucina di casa con la scomparsa prematura della mia nonna materna: nessuno aveva imparato a cucinare come faceva lei. Sebbene a tutti  mancassero le sue preparazioni, nessuno di noi ci si era mai davvero messo a cerecare di  rifarle. Il tacito consenso era che non ne valesse la pena, perché, senza le dosi precise e senza poter più vedere la nonna in azione, sarebbe stato impossibile ottenere risultati soddisfacenti.

Però, mi dicevo, la cucina di mia nonna era una tipica cucina popolare, e mi pareva assai strano che proprio non ci si potesse provare almeno a imitarla. Sono passati anni prima di arrivare a mettere i pensieri in pratica. Il problema era che avevo solo i ricordi a guidarmi, perché, porprio per essere così popolare, la sua cucina non veniva registrata neppure dai più seri libri di cucina regionale (come la somma Anna Gosetti della Salda). D’altro canto e che sarebbe mai potuto succedere? Al massimo un inguacchio; tanto, inguacchio più inguacchio meno…

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Polenta a riso

Ingredienti (per la polenta):

  • riso
  • farina di grano tenero (io uso sia la 1 sia la 0, vanno bene anche la 2 o la 00, che è quella che usava la nonna);
  • acqua
  • sale

Ingredienti (per il condimento):

  • sugo di pomodoro (ma sul condimento tornerò dopo)

 

Preparazione

Avrete notato che non ci sono dosi. Non servono. Di riso ne userete la quantità che occorre per il numero dei commensali e della fame che questi hanno (io per il mio appetito conto un cinque cucchiai circa). Per quanto riguarda la farina, anche per questa dovrete regolarvi a occhio e mani.

Dunque, metterete a bollire l’acqua. A bollore iniziato, salerete e verserete il riso. Dopo la ripresa del bollore, toglierete dal fuoco e inizierete a versare la farina a pioggia, avendo cura di mescolare bene per evitare la formazione di grumi (quelli veri, non quelli che a me parevano tali nella polenta lombarda).

imageContinuerete a versare farina fino a quando non sentirete che il tutto inizia ad addensarsi e a fare resistenza al vostro rimestare. Fate attenzione a non mettere troppo poca farina. La polenta alla fine si forma sempre, ma forse è meglio non passare un giorno intero a girare col cucchiaio nella pentola, che dite?

Una volta compiuta l’operazione, riporrete la pentola sul fuoco, mescolando di tanto in tanto, come fareste con la polenta. Continuerete fino a quando la polenta non si sarà del tutto addensata. A quel punto distribuirete nei piatti, condendo con del sugo al pomodoro e formaggio grattugiato.

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L’ultima volta che ho preparato la Polenta a riso è stato per il pranzo di Pasqua del 2016. Questa polenta non è un piatto delle feste, men che meno di quelle comandate. A pranzo con noi quel giorno c’era però chi non avrebbe potuto mangiare altro, e ci piaceva poter avere a tavola qualcosa che tutti potessero condividere. Ecco allora l’idea di una polenta esotica in Lombardia, la Polenta a riso, che ha incuriosito tutti i commensali (tutti lombardi all’infuori di me).

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Per l’occasione festiva il sugo al pomodoro sembrava però proprio poca cosa. Allora, ho pensato di sostituirlo con un bel ragù abruzzese, quello con tre carni diverse (suina, bovina e ovina), che, se non proprio della Pasqua, è almeno il sugo della domenica.

Ragù

Ingedienti:

  • carne bovina (io ho usato il cappello del prete)
  • luganega (ci sarebbero volute le salsicce, ma in Lombardia…)
  • polpa di agnello
  • una cipolla
  • due carote
  • una costa di sedano
  • qualche spicchio d’aglio rosso vestito
  • qualche foglia di prezzemolo
  • chiodi di garofano
  • passata di pomodoro (degna di questo nome)
  • olio extra vergine d’oliva
  • sale
  • pepe
  • vino bianco

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Preparazione

Metterete le salsicce/luganega a sgrassare cuocendole in poca acqua e vino bianco. Nel frattempo porrete le altre carni in una pentola con acqua fredda, farete alzare il bollore e spegnerete. Si sarà formata una spessa schiuma bianca piena di impurità. Scolerete e laverete bene la carne sotto l’acqua fredda e la farete asciugare.

imageSteccherete la carne bovina con spicchi d’aglio rosso vestiti avvolti in foglie di prezzemolo e chiodi di garofano. Poi inizierete a rosolarla nell’olio in una pentola adatta, facendola dorare da tutti i lati.

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Quando i vicini saranno lì lì per chiamare i pompieri, aggiungerete la carne d’agnello, la luganega/salsicce per terminare la rosolatura. A questo punto sfumerete col vino bianco, aggiungerete le verdure tritate sottili, che avete soffritto a parte, poi le spezie e infine la passata di pomodoro fino a ricoprire la carne. Abbasserete la fiamma oltre il minimo e lascerete sobbollire per almeno quattro ore (il mio ragù ha sobbollito per sette ore circa). Ecco fatto.

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Farete raffreddare il tutto (il ragù si prepara il giorno prima di usarlo). Libererete poi la carne dal sugo, affetterete il pezzo di manzo e lo porrete con il resto delle carni di nuovo nel sugo.

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Prima di usare il sugo per condire (la pasta, la polenta, la polenta a riso) metterete la carne, calda e intrisa di sugo, in un piatto da portata coperto, in attesa di essere servita.

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Ciomp!

Affiorano grassi ricordi | di un pranzo di nozze che fu

Al ristorante si andava solo per i matrimoni. Anzi, per gli sposalizi, come usava chiamarli allora. Erano gli anni Settanta, io ero un bambino, e quelle erano le uniche occasioni in cui si andasse tutti al ristorante. In linea teorica ci sarebbero state anche le comunioni, è vero. Ma per me sono arrivate qualche anno dopo gli sposalizi: le cugine e i cugini erano di poco più vecchi o più giovani di me, nessuno quindi ancora in età, pertanto all’epoca si mangiava fuori soprattutto per le nozze, quelle delle cugine di mio padre e di mia madre, delle loro cugine e cugini di secondo grado, di parenti di cui solo adesso, e con l’aiuto di un grafico, riesco a capire il grado di parentela, per dimenticarlo dopo neanche cinque minuti. Di parenti ce n’erano in quantità, da parte sia di padre sia di madre, e poi c’erano altre relazioni familiari ataviche (comparizie, commarizie, amicizie, mezzadrie), di cui io bambino non avevo idea, ma che richiedevano la nostra inderogabile presenza.

A me gli sposalizi piacevano assai. Bisognava sorbirsi la messa, però poi si andava al ristorante, e, quando i parenti erano stretti, spesso a seguire anche al ricevimento. Ai pranzi di nozze si iniziava con portate esotiche come “l’antipasto”, c’erano sempre a disposizione bibite concesse in genere col contagocce come la gassosa, venivano servite quantità sfacciate di dolci e addirittura ti riprendevano se facevi lo sgarbo di non accettarne (erano sempre fatti in casa, e la mamma della sposa o dello sposo ti avrebbe incenerito alla prima avvisaglia di un possibile gesto di rifiuto). Insomma, per me bambino era una pacchia.

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Negli anni Settanta il tradizionale pranzo di nozze provava, almeno dalla mie parti, iniziali sintomi di modernità. Le prime novità furono cose non mai udite come i tortellini con la panna, che mi folgorarono in un pranzo nel 1973, quando per la prima volta scoprii che la pasta ripiena poteva non avere un sugo rosso, e che “in bianco” non era per forza sinonimo di cibo per il post-maldipancia. Oppure rivoluzioni assolute come il pranzo a buffet, che fece insieme sensazione e scandalo alle nozze della cugina di mia madre nel 1974, quando alcuni degli invitati non nascosero il proprio abruzzese disappunto di fronte all’assenza del servizio al tavolo. A parte le trovate “moderne”, restavano comunuqe molti punti fissi, che solo il decennio successivo avrebbe scalzato in via definitiva: era sempre un banchetto “di carne”, e prevedeva un menù che, con poche variazioni, recava ancora tracce di costumi ottocenteschi, di quelli descritti per esempio nel Gattopardo o da Matilde Serao, nel suo insuperato Saper vivere.

Risultati immagini per saper vivere norme di buona creanza

Un pranzo di nozze iniziava invariabilmente con un antipasto di salumi, formaggio e olive. Proseguiva con del brodo con la pizza rustica, o con un consommé a cui faceva seguito la galantina di pollo (che era servita per fare il brodo) insieme al lesso (come sopra). Poi le lasagne (“la sagna”, da noi), o, nei pranzi più rustici, la pasta alla chitarra al ragoût (non quello con il macinato, ma con il ragoût detto “napoletano”), che proprio negli anni Settanta e per nozze più evolute iniziavano ad essere sostituiti dal tris di primi. Dopo la portata di pasta era il turno del pollo, poi della carne rossa ai ferri o al forno con contorno di patate e di insalata. A queste poteva seguire o meno la prochetta. Nei pranzi di campagna, il dessert era in genere una semplice macedonia di frutta con o senza gelato, che preparava alla torta e ai dolci; in quelli cittadini la torta e i dolci erano preceduti da squisitezze antiche, come la Pesca Melba (da me adoratissima), che sulle tavole non proviciali erano state ormai abbandonate già da alcuni decenni.

Gli anni Ottanta sono stati una cesura rispetto a tutto questo. Il pesce ha sostituito la carne in via pressoché definitiva, e gli antipasti hanno preso il sopravvento, riducendo le altre portate a un interminabile, molesto intermezzo: si è satolli da un pezzo, ma andare via prima della torta proprio non si può, pare brutto.

Qualche tempo fa mi chiedevo che fine avesse fatto la Galantina di pollo. Stavo col pensiero di un piatto sparito dalla (mia) vista, ma che era invece una presenza ricorrente e sempre gradita dei banchetti di nozze di una volta. Ne ho trovata la ricetta, e l’ho rifatta. E poi ho capito il perché della sua sparizione. Non vi anticipo nulla, vi sarà tutto presto chiaro.

Galantina di pollo

Ingredienti (per un numero di persone imprecisato, tanto non la farete mica per voi soli, la Galantina; e seppure la faceste, dopo tutta la fatica che avrete fatto, non ne vorrete certo fare un’altra la settimana successiva):

  •  un pollo (il mio era ruspante, e pesava circa due chili. Vi consiglio di procurarvene uno sempre ruspante ma più piccolo, capirete dopo perché);
  •  600 g. circa di carne di manzo macinata;
  •  1 o 2 salsicce;
  •  150 g. circa di prosciutto crudo tagliato a fette sottili;
  •  300 g. circa di parmigiano e pecorino grattugiati;
  •  2 o 3 uova intere freschissime;
  •  1 carota;
  •  1 costa di sedano;
  •  foglie di prezzemolo;
  •  alcune olive verdi e nere;
  •  Marsala secco (un bicchierino);
  •  sale, pepe, noce moscata.

Preparazione:

chiederete al macellaio di disossarvi il pollo. È una operazione molto delicata, che solo pochi ormai sanno portare a termine in modo impeccabile: dovrete fare di necessità virtù.

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Dunque, riprendiamo. Salerete leggermente l’interno del pollo, foderandolo successivamente con le fette di prosciutto. Su queste porrete il macinato di manzo che avrete anch’esso leggermente salato, pepato, condito con una spolverata di noce moscata e amalgamato per bene con i formaggi grattugiati, aggiungendo un bicchierino di Marsala secco e qualche foglia di prezzemolo.

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Su questa base porrete poi la salsiccia (che avrete avuto cura di far cuocere per una mezz’ora con acqua e vino bianco), le uova sode e sbucciate, le olive denocciolate, la costa di sedano (privata dei fili) e la carota fatti a filetti (e disposti in senso longitudinale). A piacere aggiungerete dei pistacchi.

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Chiuderete i lembi del pollo, e, aiutandovi con un ago da pelle, filo e un ditale, li cucirete, facendo molta attenzione a non lasciare buchi. Ecco, si tratta di un’operazione delicata. Se il macellaio ha fatto un buon lavoro non sarà (troppo) difficile, altrimenti occorrerà essere pazienti: il grasso della pelle del pollo farà scivolare le vostre mani che non faranno presa sull’ago, e l’ago resterà a metà cucitura, senza andare più né avanti né indietro; la pelle del pollo tenderà a strapparsi, e altre amenità apripista di molte esclamazioni volgari.

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Qui c’era mia madre, che ha saputo risolvere una situazione disperata: il pollo era di due chili, ed era stato disossato malissimo, e di conseguenza era difficilissimo da ricomporre con ago e filo. La volta precedente c’era il Pitone, che, smadonnando durante la cucitura, mi ha intimato di bandire per sempre la Galantina dalla nostra cucina. Infatti quella che vi racconto è stata fatta a 500 Km di distanza.

Dovrete dare al tutto una forma tondeggiante e allungata, come un arrorsto ciccione. La nostra Galantina, date le dimensioni originarie del pollo e le difficoltà di cui sopra, alla fine aveva un’estetica discutibile, e pareva uscita da un film “de paura” di Carpenter, piuttosto che da una cucina festiva.

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Una volta terminata la cucitura, legherete con lo spago il tutto e porrete a cuocere a fuoco dolce insieme in acqua bollente in cui avrete messo a freddo ossi, sedano, carota, cipolla, qualche pomodorino “di Pechino” (come dicea una mia prozia megera ma carissima), cannella, chiodi di garofano e buccia di limone, insomma, come fareste con la carne da brodo. La Galantina dovrà cuocere per circa un’ora, un’ora e mezza (il tempo dipende anche dal suo diametro).

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Una volta cotta, lascerete raffreddare la Galantina nel suo brodo. Poi la scolerete e la porrete in frigorifero tenendola coperta per un giorno. Solo a questo punto potrete procedere ad affettarla. Al taglio si scopriranno le inaspettate composizioni che avranno formato i vari ingredienti del ripieno, con diversa armonia di colori e testure. Che poi faranno la delizia del palato, quando gusterete la Galantina come piatto di mezzo dopo una pietanza in brodo o un consommé, o, seguendo la moda del giorno, tra gli antipasti, sorprendendo i vostri ospiti con un sapore nuovo, cioè antico.

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Chiù! cioè, Ciomp!

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Le nonne degli altri

Andavo spesso a fare visita a mia nonna. Negli ultimi anni viveva in una casa di riposo, sul mare, a pochi chilometri dai miei. Era una delle ospiti più anziane, e una delle pochissime che l’età non avesse abbattutto, non nelle sue facoltà mentali. Con lei facevo molti discorsi, le raccontavo del mio lavoro, e dei viaggi legati alle  mie ricerche. Ricerche che lei non riusciva a capire fino in fondo  – che diavolo facesse un musicologo è una domanda che non aveva per lei, come per molti altri nella mia famiglia e non solo, una risposta né chiara né immediata – ma capiva che erano cose per cui si doveva studiare, e lo studio era per lei una cosa seria, e tanto le bastava. Le raccontavo anche delle mie cucine, dei miei tentativi, non sempre riusciti, di rifare le ricette contadine, le sue. Anche in questo lei mi seguiva interessata, sempre però manifestando un filo di stupore e forse anche di bonaria disapprovazione. Da una parte la meravigliava che fossi proprio io, il nipote maschio, ad avere questa passione per la cucina (che manco lei aveva mai avuto davvero); dall’altra che ad incuriosirmi fossero proprio quelle ricette di campagna, che per lei che ci era cresciuta in mezzo non avevano niente di curioso. Per lei era la cucina che doveva saper fare, e basta. E per me invece erano pietre filosofali gastronomiche, per le quali potevo mobilitare amici, e organizzare cene-evento, scrivere post sul mio blog, su piatti che a casa sua si sarebbero consumati solo in famiglia e in giorni qualsiasi, senza tanti caroselli.

In queste visite nei suoi ultimi anni, mi trattenevo da lei per la cena. Nel giro di poche volte ho conosciuto così le commensali di mia nonna, e i loro parenti che, come me, si recavano regolarmente a trovarle, e ho iniziato presto a fare con tutte e tutti un  po’ di conversazione. La conversazione era più frequente con i familiari delle signore che l’età e la malattia avevano reso ormai altre persone da quelle che erano, a volte delle sconosciute a se stesse e ai propri cari.

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Durante una di queste conversazioni, ho scoperto che la nipote della commensale alla destra di mia nonna, e che incontravo quasi tutte le volte che mi recavo in visita,  aveva diretti legami di parentela con una storica famiglia di pasticcieri del mio paese. Era una signora simpatica e loquace, e io non ho saputo trattenermi: lo spirito della ricerca mi ha imposto di farle domande sui maggiori suoi, la loro attività, le loro ricette… Due visite dopo, sono passato ai fatti, e, con un filo di facciatosta, le ho chiesto se avessero ancora in casa le ricette dei nonni. Non solo la risposta è stata affermativa, ma insieme a quella è arrivata l’offerta di portarmi il ricettario. Sarebbe stata la mia domanda successiva, con un filo supplementare di facciatosta che avevo pronto, ma che non mi è stato necessario dover mettere in campo.

L’indomani sarebbe arrivato il volume di ricette della nonna Assunta, raccolto, ordinato, stampato e rilegato a spirale dai nipoti, pronto per essere da me fotocopiato. E, con il volume, il mio brodo di giuggiole. L’ho letto tutto con grande foga, trovandoci ricette note e ricette sconosciute. Ero già tutto un progetto, tutto un evento, tutto una cena – il Pitone al telefono già tremava alla sola idea! La gentile signora, però, inisieme alla raccolta mi aveva regalato anche un avvertimento: i suoi suoceri facevano i dolci con gli occhi e con le mani, e non seguendo le ricette.  Anche se le avessi lette e applicate alla lettera non avrei ottenuto i risultati della loro pasticceria.

Vabbe’, di questi problemi mi sarei occupato semmai in un secondo momento. Dopo tre anni, per la precisione, quando mi ci sarei messo per davvero a provare una delle ricette della nonna Assunta.

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Crema di fragole

La ricetta su cui ho da subito puntato l’attenzione è la crema di fragole, l’unica di cui non conoscessi proprio nulla. Poi mi pareva l’unica che che potesse essere ripetuta senza troppe difficoltà. Infine era l’unica che contenesse un ingrediente d’altri tempi: il vino di Cipro. Il vino di Cipro! Il vino che si beve nella Locandiera di Goldoni! Come avrei potuto resistere a una ricetta con un vino d’Oriente? e perché poi resistere?

Sì, ma dove trovarlo ‘sto vino di Cipro, e che vino è? Anche le mie ricerche in rete non avevano dato molo frutto. Forse poteva essere il vino dolce detto Koumandaria. Ma non ero sicurissimo, e in ogni caso non era facile da procurare. Avrei potuto comprarlo in internet, ma ci metto tempo a elaborare che su internet non si comprano solo libri e dvd. Quindi per fare la crema di fragole ho aspettato 1) che fosse tempo di fragole; 2) di avere un vino che se non proprio proprio di Cipro, almeno coservasse qualcosa di quel fascino d’Oriente fiabesco. Ci sono voluti tre anni, appunto. L’estate scorsa in vacanza alle Eolie ho trovato quello che faceva al caso mio: la malvasia di Stromboli. Poi ho dovuto aspettare che tornassero le fragole, e, cosa non da poco, ricordarmi che la malvasia mi sarebbe servita per la crema, e quindi ricordarmi di non berla tutta prima, se no, addio crema anche per quest’anno! Sembra facile, ma la malvasia di Stromboli è un eccellente vino da dessert, e non è facile frenarsi quando ce lo si ha in casa, né frenare i propri ospiti, né il Pitone . Comunque, ne ho messo da parte quanto bastava per la crema di fragole.

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Ingredienti (per circa 6 coppe):

  • sette tuorli d’uovo e due albumi;
  • 150 grammi di zucchero;
  • 500 gr. di fragole mature lavate e mondate del picciolo;
  • 50 gr. di amido di mais;
  • un bicchiere di vino di Cipro;
  • un bicchiere d’acqua;
  • un cucchiaino di cannella.

Preparazione

Schiaccerete le fragole e le mescolerete con lo zucchero e la cannella, lasciandole riposare così per un’ora. Così dice la ricetta di nonna Assunta. Io le ho frullate.

imageTrascorsa l’ora, passerete le fragole frullate con lo zucchero al setaccio, e le amalgamerete con i tuorli, gli albumi il vino e l’acqua.

imageSuccessivamente passerete di nuovo tutto al setaccio, e cuocerete tutto a bagnomaria  mescolando con regolarità, fino a quando non si sarà formata la crema. Servirete poi versando in coppe, e accompagnando con biscotti secchi (io ho scelto dei savoiardi).

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Tutto qui

Ma c’è un’insidia. Qui intervenivano di certo le mani e gli occhi di nonna Assunta e suo marito. La crema non si sarebbe formata seguendo questo procedimento ma senza farina o amido di mais. Gli ingredienti potevano essere più o meno quelli di uno zabaione alle fragole, ma il procedimento no (e poi c’era troppo poco zucchero per sette uova). Quindi, dopo aver passato al setaccio il composto e prima di iniziare a cuocerlo a bagnomaria, amalgamerete l’amido di mais, facendo attenzione che non si formino grumi.

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Allora, io ho pensato di aggiungere i 50 gr. di amido di mais. Ho tradito la ricetta di nonna Assunta, ma, spero, non i suoi occhi e le sue mani. Ah, dimenticavo, la sua crema di fragole è squisita, e può essere lo charme di un dopocena di maggio.

Ciomp!

p.s. Mi ero scordato che le coppe di vetro appartenevano alla nonna del Pitone: quante nonne in una sola ricetta!

p.p.s. Nel rifarla ho seguito il consiglio di un blogger di nobile educazion e lunga esperienza (qbbq) di non aggiungere il bicchiere d’acqua. Funziona! Grazie Stefano!

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Mai senza pupe

Non scendo. Non vado negli Abruzzi quest’anno per Pasqua. Non ce la faccio, devo lavorare. Resterò in Lombardia, senza fiori, senza verde, senza cielo, senza niente. Soprattutto senza le feste lunghe, quelle che non si esauriscono nel solo giorno comandato, ma si allargano ai giorni circonvicini, alla settimana precedente e successiva. Mi tocca invece solo la Pasqua; niente sepolcri del giovedì, niente processione del venerdì santo, quindi, niente Miserere di Francesco Paolo Masciangelo.  Insomma, niente teatro. Uffa. Ah, e poi probabilmente niente Pasquone, ma solo la banale Pasquetta. Il Pitone mi ha detto che qui non usa la gita fuori porta con picnic luculliano. Prego?!? Macché Pasquone e Pasquone! Come avevo fatto a non pernsarci: qui le case non traboccano mica dei dolci pasquali.  Al massimo la colomba (ovviamente comprata in pasticceria), e quella in genere finisce a pranzo. E non traboccano nemmeno dei resti del pranzo:  la domenica di Pasqua qui è alla fine solo una domenica un filo rinforzata, e il filo di rinforzo non potrebbe certo sostenere l’appetito anche del giorno successivo, come  al contrario succede ai pranzi pasquali abruzzesi, i cui resti sfamerebbero per tre giorni una classe di ragazzini delle medie in gita. Per la gita fuori porta si ricorrerebbe al panino (aiuto!) o alla trattoria. No, grazie.

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Una parvenza di Abruzzo è allora necessaria, per dare un senso a questi giorni, ché, se sono ‘di  festa’, occorre si distinguano da quelli che non lo sono. La parvenza di Abruzzo in Lombardia significa cibo, tanto cibo, nella fattispecie, dolci, pasquali. Non tanti, però. L’ho detto: devo lavorare, e il tempo per farli tutti – pupe, cavalli, pizze di ricotta, fiadoni (dolci e salati) e bocconotti – non ce l’ho (e il Pitone, di nuovo a dieta, non me lo perdonerebbe). Ma una domenica pomeriggio vuota bisogna pure riempirla. Con qualche pupa di mandorle, così tanto per far finta di passare la Pasqua altrove.

Capiamoci. Le pupe di mandorle (o il cavallo), che vi sto per spiegare, non sono dolci che si possano fare così, perché nel pomeriggio di un giorno di festa vi viene l’uzzolo. In Abruzzo, dove in casa si fanno questi dolci tutti gli anni, forse. Qui è stata necessaria una pianificazione attenta e meticolosa, e procurarsi gli ingredienti giusti ha significato giocare ai quattro cantoni in città per tutto il sabato. Tanto che alla fine ero esausto, e ho rimandato la preparazione alla domenica.

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Pupe (e cavalli) di Pasqua

Si tratta di dolci pasquali. A forma di pupa e di cavallo. Si preparano in tutte le case degne di questo nome per le bambine le (pupe)  e i bambini (cavalli), per le nuore (pupe) e i generi (cavalli) – sì, riconosco che dalle mie parti siamo un po’ prevedibili. A casa mia si tratta di dolci fatti con una pasta di mandorle; io li ricordo sempre così. Sono la variante ‘ricca’,  di dolci anche ‘poveri’, realizzati nelle stesse forme ma con ricette senza mandorle. Me ne parlava mia nonna, di questi, ma come di una cosa di campagna, di una cosa di una volta, quando anche le mandorle erano un lusso. L’impasto è come quello dei biscotti; e forse è anche per questo che noi prediligevamo la versione con le mandorle, così diversa dai dolci (e dai biscotti) che potevano girare in casa  lontani da feste o ricorrenze speciali.
La ricetta che vi racconto oggi ha un’altra origine sociale. Anche questa è parte della mia storia familiare, ma viene dalla città e non dalla campagna, dalle madrine di mia madre (che noi abbiamo sempre chiamato con affetto e deferenza “le Signorine”), che vivevano in centro, fino alla guerra in un palazzo di famiglia, e che godevano del privilegio delle pupe (e dei cavalli) di mandorle con alcune generazioni di vantaggio.

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Ingredienti:

  • 500 gr di mandorle tostate e tritate grossolanamente;
  • 1 Kg di farina (la ricetta richiede la 00; stavolta ho usato la 0 perché ne ho trovata di  ottima qualità, mentre per la 00 mi sarei dovuto accontentare di quella del supermercato. Non dico niente, fate voi come credete);
  • 950 gr di zucchero semolato;
  • 120 gr di cacao amaro in polvere;
  • 1 bicchiere di olio etravergine d’oliva;
  • 10 uova;
  • 12 gr di ammoniaca (avete letto bene, non sono impazzito: è l’agente lievitante. Si tratta din una ricetta antica, quindi gli ingredienti possono risultare bizzarri a chi non ha qualche dimestichezza con la storia della gastronomia. L’ammoniaca per i dolci la trovate nelle farmacie giuste. Ho scoperto che anche alcuni supermercati adesso ce l’hanno. Ma volete mettere?);
  • la buccia grattugiata di due limoni (io ho aggiunto anche quella di un’arancia);
  • liquore per dolci (Strega, anisetta);
  • cannella in polvere;
  • un baccello di vaniglia;
  • 400 gr di cioccolato fondente (per la copertura);
  • 1 chiara d’uovo (idem);
  • 250 gr di zucchero al velo (idem);
  • cioccolatini vari, fiori di zucchero e di ostia per la decorazione.

Preparazione

imagePer prima cosa tosterete nel forno le mandorle, e, appena tiepide, le triterete grossolanamente (mica vorrete comprare quelle pronte del supermercato?). Poi preparerete lo zucchero al velo (mica vorrete comprare quello pronto in busta?).

imageIn un bacile capiente mescolerete gli ingredienti secchi (mandorle, farina, cacao, zucchero, ammoniaca, cannella, le bucce grattugiate e i semi di un baccello di vaniglia. Aggiungerete le uova, l’olio, un po’ dei liquori e inizierete a impastare fino a quando non otterrete un composto consistente e appiccicoso. Attenzione: non dovrà essere troppo morbido, ma dovrà sempre fare resistenza, e appiccicarvisi alle mani. Nel caso restasse troppo compatto, aggiungerete del liquore e,  nell’eventualità, un filo d’olio.

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Su ramine (vulgo: teglie) foderate di carta forno formerete delle figure a forma di pupa (o di cavallo). Per facilitarsi esistono delle forme di alluminio. Ma esistono in Abruzzo, non qui, quindi ho dovuto fare a mano. Potrete fare anche colombe, o, come me, cuori, le uniche forme libere ammesse. Ah, dovrete ripetutamente ungervi le mani, ché l’impasto appiccica.

imageimageimageimageAvrete cura di inserire delle strisce di carta forno (precedentemente preparate) nella cavità delle braccia, e in quella tra il collo e le spalle, o, per i cuori, tra i due lobi, onde evitare l’effetto ameba, sempre in agguato quando la cottura avviene in campo aperto.

Cuocerete per una ventina di minuti in forno preriscaldato a 170/180°, ma ognuno sa i forni suoi, quindi, regolatevi voi. Le pupe saranno cotte quando al tatto saranno ancora un po’ morbide (potrete aprire il forno durante la cottura e provare col dito: non è la torta paradiso, non succede niente).image

Una volta sfornate,le pupe (e i cavalli), le farete raffreddare. Nel mentre preparerete della glassa mescolando 250 grammi di zucchero al velo con una chiara d’uovo, e scioglierete a bagnomaria del cioccolato fondente (con un filo di latte, qualche cucchiaio di liquore e un cucchiaio di olio d’oliva per renderlo lucido).

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Spennellerete la superficie delle pupe col cioccolato fuso. Le decorerete poi con la glassa, aiutandovi con una tasca da pasticcieri.

imageSulla cioccolata ancora umida porrete poi decorazioni come fiori di zucchero e di ostia, cioccolatini vari.

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Ecco fatto. Almeno così mi sembreranno giorni di festa (abruzzesi).

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Ciomp!

 

Per altra festa, per altri giorni

Le crispelle si fanno il 23 dicembre. Per questo è complicato parlarne sul blog. Bisogna essere dai miei quel giorno per fotografare il procedimento. Quel giorno, se no se ne riparla l’anno successivo. L’anno successivo con le crispelle, però, ritorna pure il Natale, e secolui uno dei periodi più impegnativi dell’anno lavorativo. Impegni che col Natale non  hanno niente a che vedere, ma si coaugulano sempre in quelle settimane di dicembre. Impegni che prevedono magari anche dover andare alla Scala per la prima opera della stagione,  magari poi anche all’inaugurazione il 7 dicembre, e si fa tutto con un filo di affanno. E le crispelle, fotografate l’anno prima,  non ci si ha più il tempo né la voglia di raccontarle. Signora mia, mica ci si sta dietro! Così si rimanda tutto all’anno dopo, e a quello ancora dopo, e a quello dopo ancora, e alla fine delle crispelle sul blog non si riesce  a parlare mai. Vero è che nei giorni sospesi tra Natale e Capodanno il tempo ci sarebbe tutto, ma lo sfrangimento da cibo e feste è anch’esso sfavorevole alla crispella,  anche solo alla sua idea. Poi arriva il momento giusto, quello in cui uno potrebbe anche mettercisi proprio il 23 sera al blog, dopo averle appena appena mangiate  le crispelle, perché le cose da fare tacciono magicamente. Ma quello è di norma l’anno in cui mia madre decide che le crispelle non si fanno.  E allora niente, si rimanda.

Crispelle 9

Quest’anno sarebbe stato uguale ai precedenti, se non fosse stato per uno dei commenti al mio ultimo post. Si parlava di fritti e disastri con un blogger che seguo sempre con grande interesse (qbbq. Quanto basta di cucina e altro). Saltano così fuori frittelle calabresi di pasta lievitata dure alla riuscita, e con loro la mia offerta di una ricetta  immagino simile. Quella delle crispelle. Simile perché anch’esse di pasta lievitata; simile ancora, credo, perché anch’esse frittelle del sud. Tra un commento e l’altro si è fatto Carnevale, tempo di altre frittelle, e altri dolci… io però le crispelle stavolta le racconto lo stesso, ché uno ogni tanto della stagionalità e delle feste comandate può pure allegramente decidere di non curarsene… non specifico che cosa, mi vengono solo espressioni in livornese irripetibili. Tanto avere capito.

Crispelle

Ingredienti:

  • 1 Kg di farina 00;
  • 2 cubetti di lievito di birra;
  • 1 patata (se grande), 2 (se più piccole);
  • la buccia grattugiata di un limone;
  • una presa di sale;
  • uvetta (quanta ve ne piace);
  • zucchero e cannella;
  • acqua appena calda per impastare (quanta ne riceve);
  • olio d’oliva extravergine per friggere;
  • preparazione atletica;
  • pazienza.

Preparazione

In un recipiente grande – da noi si chiamerebbe “tino” perché una volta in campagna si usavano quei recipienti di legno usati nella vinificazione – porrete la farina nella quale sbriciolerete il lievito. Merscolerete poi l’uvetta (precedente ammollata in acqua calda e, se vi piace, vino rosso o marsala), la buccia grattugiata di un limone e una presa di sale. Nel frattempo avrete lessata la patata. Una volta cotta la schiaccerete nella farina. Con acqua appena calda inizierete ad amalgamare gli ingredienti, formando un impasto molto morbido.

crispelle 1

Adesso arriva il bello. Se avete sorriso leggendo tra gli ingredienti “preparazione atletica”, adesso ve ne faccio passare la voglia. Sì, perché l’impasto, che finora vi sembrava un giochetto,  deve incorporare molta aria, altrimenti  al posto delle crispelle mangerete  dei copertoni fritti con zucchero e cannella. E onde evitare questo inconveniente dovrete sbattere l’impasto con la forza delle vostre braccia per una mezz’oretta. Avete capito bene. Metterete le vostre manine bell’impasto appiccicoso e inizierete a menare colpi. Dopo cinque minuti vi farà male tutto. Del braccio non dico nulla perché quello non ve lo sentirete più.  Stringete i denti, e imprecate: bisogna andare avanti. Avanti fino a quando l’impasto non inizierà a staccarsi dalle vostre mani. Avrete l’impressione che si stacchino anche quelle dalle vostre braccia: è il momento giusto. Coprirete tutto il tino con delle coperte, e farete lievitare fino al raddoppio dell’impasto.

Crispelle 2

A questo punto bisognerà friggere le crispelle. Porrete sui fornelli una grossa padella o una pentola adatta alla frittura, e farete scaldare abbodante olio extra vergine d’oliva. Con le mani bagnate (l’impasto resta appiccicoso) prenderete una po’ di pasta lievitata, allungandola e al contempo torcendola come vedete in foto, e la metterete a friggere, avendo cura di tenerla un attimo stirata con forchette di legno, perché non si ritiri.  Proseguirete così con le altre, facendo attenzione a girarle per farle colorire in modo uniforme. Una volta dorate, scolerete le crispelle, ponendole su carta assorbente, e le cospargerete ancora molto calde con una generosa spolverata di zucchero e cannella.

Crispelle 8

Gusterete le crispelle ancora calde a merenda (si friggono nel pomeriggio ed è impossibile resistere), o per cena, accompagnate da un’insalata. Dal giorno dopo diventeranno dure, ma non temete, basterà farle rinvenire sulle braci del camino per qualche minuto e torneranno buone come al primo giorno (in campagna, una volta, il 23 dicembre si facevano quantità industriali di crispelle, e si mangiavano scaldate così per tutte le festività, fino all’Epifania).  Se non avete il camino userete il forno, ma non è lo stesso.

crispelle 3

La modernità nel frattempo è arrivata anche in Abruzzo, e adesso le crispelle si fanno con molto più agio usando la planetaria. Attenzione, però, l’impasto delle crispelle è molto resistente. Se non ci avete un planetaria con la potenza giusta, il 23 dicembre potreste ritrovarvi con una planetaria fusa. Anni fa io e mio padre fa tentammo di risparmiarci la fatica dello sbattimento a braccia usando un trapano a cui avevamo collegato un accrocco fatto a posta. Rischiammo di buttare via il trapano. Ad ogni modo questa modernità a casa dei miei non è (ancora) arrivata. L’alternativa è andarle a comprare in pasticceria le crispelle, cosa che evita sbattimenti di tutti i tipi, ma non è facile trovare quella che le faccia come piacciono a noi… e poi non è lo stesso. Volete mettere?

Ciomp!

crispelle 6Ah, il Pitone domestico non è mai il 23 dicembre dai miei. Le crispelle però le ha mangiate, una volta, in agosto, quando, per una nottebianca (aiuto!), una pasticceria del posto si è messa a farne. Che tempi, signora mia!

Oh come tutto riluce di fritto

L’ultima volta è stato, credo, nel 1981. Non era mica facile convincere mia nonna a farli, li ciabbuott’ (i ciabbotti, in italiano «i ciccioni»). Anzi, era estremamente difficile. Lei era molto brava a dire un secco «no», con cui il discorso finiva.  E dire che ci mettevamo in tanti a tentare di smuoverla, compreso noi nipoti, ché, si sa, le nonne, specie quelle del Sud, ai nipoti non oppongono mai un rifiuto, soprattutto quando c’è cibo coinvolto (nonziamai!).    Solo quella volta però, credo nell”81, accettò di farci questi benedetti ciabbuott’. Le venivano molto bene. Ma mia nonna non aveva il gusto per la cucina. L’ho già scritto in altre occasioni: a lei piaceva lavorare la terra. Aveva dovuto imparare da piccola, visto che un fratello per aiutare i genitori sarebbe arrivato solo alcuni anni dopo di lei, e lavorare la terra sarebbe restata la sua vera passione. La cucina era un dovere che assolveva perché era necessario farlo, e lo faceva in modo corretto. Aveva imparato anche quella, come era ovvio per una ragaza della sua epoca e condizione. La nonna, però, non cucinava col trasporto e la creatività delle sue sorelle, cognate, cugine, parenti, tutte cresciute principalmente come «femmine di casa», prima che come contadine. Eppure questa nonna poco cuciniera era in casa l’unica a saperli fare davvero bene li ciabbuott’. Sicché bisognava sperare che le nostre preci avessero effetto presso di lei. Cosa che, come dicevo, accadeva molto, molto di rado.

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Sarà che forse qualche volta per sfinimento li ciabbuott’ alla fine ce li concedeva, sarà perché negli anni ’80 la cucina regionale povera godeva di scarsissimo interesse (erano gli anni in cui ci si sentiva “in” solo con i cocktail di scampi, le pennette alla vodka o il risotto allo champagne, devo aggiungere altro?), ma nessuno in famiglia ha mai pensato di aggirare l’ostacolo-nonna e imparare a fare li ciabbuott’ per conto proprio. Così li ciabbuott’ sono a poco a poco spariti dalla circolazione, sempre e solo raccontati, vagheggiati, assurti presto alla dignità di un mito gastronomico irripetibile e, di fatto, irripetuto. Sarebbe bastato poco per evitarlo, ma col passare degli anni la nonna, le sue sorelle, cognate, cugine sono invecchiate, poi una dopo l’altra ci hanno lasciato, e così addio ricette, e, soprattutto, addio pratica per li ciabbuott’.

Sì, perché la ricetta la si sarebbe pure in qualche modo recuperata. Ma, come spesso accade con la cucina povera, quello che conta davvero è l’esecuzione della ricetta: lì cascano gli asini. In questo tipo di cucina gli ingredienti in genere sono pochissimi e semplici, e o le cose si fanno a dovere o non ci sono reti di salvezza, si combina un disastro, e basta. È tutta e solo questione di pratica. E chi me la dava a me la pratica dei ciabbuott’ a quasi quarant’anni dall’ultima volta che li avevo assaggiati?

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Tuttavia, lo sapete, a me queste difficoltà piacciono assai. E mi fanno davvero venire l’uzzolo di provarci. E così è stato. Alla fine dello scorso novembre mi sono messo in testa di farli, li ciabbuott’. Era per giunta anche il periodo giusto: li ciabbuott’ non si mangiavano mica tutto l’anno, eh. Erano il cibo che dalle mie parti chiudeva la raccolta delle olive a fine novembre. Se ne preparavano quantità generosissime, accompagnati poi da altri fritti come le foglie di borragine in pastella e le cimbrignaccole (frittelle di pasta semplice, credo, ma devo indagare sull’argomento) e si friggevano nell’olio extravergined’oliva, manco a dirlo.

C’era però un problema nel fare li ciabbuott’. Dovevo fare una ricetta sconosciuta, fatta di tentativi sulla base di racconti di prozie sempre un po’ renitenti a dare troppi dettagli sulle loro ricette. Dovevo fare una ricetta sconosciuta, fatta di tentativi, e di tentativi fritti!, e fritti con l’olioextravergine d’oliva di mio padre! Il Pitone domestico avrebbe potuto non perdonarmelo, mai. Ho approfittato di un suo fine settimana di lavoro, e ho chiamati gli amichetti soliti delle mie scappatelle gastronomiche: P. e G.
G. è una cuoca esperta, P. un ottimo collaboratore, un vero marito, di quelli che risolvono i problemi, stile Harvey Keitel in Pulp Fiction: nessuno si sarebbe scantato dell’eventuale macello sui fornelli.

All’inizio eravamo tutti un filo esitanti. Non c’era una ricetta, solo impressioni e cose imprecise dette a denti stretti e sempre divagando (le prozie). Ma, insomma, alla fine ce l’abbiamo fatta.

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CIABBUOTT’
ricetta recuperata

Ingredienti

  • farina di granturco sottile, del tipo “fioretto”: due parti;
  • farina di grano duro (non la semola, la farina, occhio!): una parte;
  • sale;
  • acqua bollente q. b.;
  • olioextravergined’oliva.

 

Preparazione

Già dall’elenco degli ingredienti immagino abbiate notato l’aleatorietà delle dosi. La ricetta prevede una proporzione tra gli ingredienti principali. L’importante è che le parti siano sempre in rapporto di 2 a 1. Dunque, come prima cosa mescolerete bene le farine e il sale in un recipiente. Poi metterete a bollire l’acqua. Quando questa avrà raggiunto un bollore vivace, inizierete a versarla sulle farine mescolate, impastandole aiutandovi con un cucchiaio di legno. In questo modo “incuocerete” le farine, come si dice dalle mie parti. Continuerete a versare acqua bollente (dovrete sempre rimetterla sul fuoco per non fare affievolire il bollore) fino ad ottenere un impasto morbido, sì, morbido, ma non troppo. Deve essere una cosa che riuscite ad impastare ancora con le mani, come fosse una massa per la pasta, ma più morbida di questa.

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Lo so, è difficile capire come diavolo debba essere quest’impasto. Primo perché impastare le farine con l’acqua bollente rende anche l’impasto bollente, e ci si scotta. Secondo perché non c’è altro modo per capire come debba essere se non vedendolo. Vi dico però che anch’io ero nelle vostre stesse condizioni, ma nonper questo mi sono tirato indietro. Ho fatto due impasti: uno troppo liquido, e uno, credo, giusto.

Ecco, con l’impasto giusto, quello morbido quanto basta, formerete delle polpette che tufferete nell’olio ben caldo, e scolerete quando avranno assunto un bel colore ambrato. La ricetta originale prevederebbe l’uso della schiumarola per prelevare l’impasto da tuffare nell’olio, in modo da dare ai ciabbuott’ la forma caratteristica a mezzaluna. Qui le mie abilità culinarie, e pure quelle di G. (lasciamo perdere di P.) si sono rivelate insufficienti.

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Allora, questa è la storia a lieto fine: li ciabbuott’, sebbene non a mezzaluhna, sono venuti. Non so se siano venuti bene, buoni senz’altro: l’unione delle due farine ha come risultato un gusto lievemente dolce, che si sposa piacevolissimamente col salato. Sarebbero state ottime accompagnate all’insalata di puntarelle (altra verdura di stagione). Ci avevamo pensato anche io, G. e P. a prepararla, ma poi non ci siamo intesi su chi le avrebbe comprate le puntarelle, quindi abbiamo ripiegato su una comunissima insalata mista.

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La storia di fine funesto è invece quella che riguarda l’altro impasto, quello troppo morbido. Abbiamo cominciato a friggere quello per primo, ma sotto i nostri occhi li ciabbuott’ (questi sì fatti con la schiumarola) si disfacevano friggendo. Panico! Per evitare di mandare sprecati ettolitri di olioextravergined’oliva di mio padre (quando si frigge al Sud si frigge!) ho iniziato a recuperare tutti i frammenti degli sfortunati ciabbuott’ che riuscivo a recuperare. Sono riuscito a pulire l’olio per bene, per cominciare la frittura dell’impasto più sodo. Meno male che avevo foderato i fornelli con fiumi di carta stagnola, ché questa operazione di recupero dei ciabbuott’ disintegrati ha fatto cadere schizzi unti e sfrigolanti ovunque. Non oso pensare alla faccia che avrebbe fatto il Pitone.

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Ciomp!

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