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Affiorano grassi ricordi | di un pranzo di nozze che fu

Al ristorante si andava solo per i matrimoni. Anzi, per gli sposalizi, come usava chiamarli allora. Erano gli anni Settanta, io ero un bambino, e quelle erano le uniche occasioni in cui si andasse tutti al ristorante. In linea teorica ci sarebbero state anche le comunioni, è vero. Ma per me sono arrivate qualche anno dopo gli sposalizi: le cugine e i cugini erano di poco più vecchi o più giovani di me, nessuno quindi ancora in età, pertanto all’epoca si mangiava fuori soprattutto per le nozze, quelle delle cugine di mio padre e di mia madre, delle loro cugine e cugini di secondo grado, di parenti di cui solo adesso, e con l’aiuto di un grafico, riesco a capire il grado di parentela, per dimenticarlo dopo neanche cinque minuti. Di parenti ce n’erano in quantità, da parte sia di padre sia di madre, e poi c’erano altre relazioni familiari ataviche (comparizie, commarizie, amicizie, mezzadrie), di cui io bambino non avevo idea, ma che richiedevano la nostra inderogabile presenza.

A me gli sposalizi piacevano assai. Bisognava sorbirsi la messa, però poi si andava al ristorante, e, quando i parenti erano stretti, spesso a seguire anche al ricevimento. Ai pranzi di nozze si iniziava con portate esotiche come “l’antipasto”, c’erano sempre a disposizione bibite concesse in genere col contagocce come la gassosa, venivano servite quantità sfacciate di dolci e addirittura ti riprendevano se facevi lo sgarbo di non accettarne (erano sempre fatti in casa, e la mamma della sposa o dello sposo ti avrebbe incenerito alla prima avvisaglia di un possibile gesto di rifiuto). Insomma, per me bambino era una pacchia.

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Negli anni Settanta il tradizionale pranzo di nozze provava, almeno dalla mie parti, iniziali sintomi di modernità. Le prime novità furono cose non mai udite come i tortellini con la panna, che mi folgorarono in un pranzo nel 1973, quando per la prima volta scoprii che la pasta ripiena poteva non avere un sugo rosso, e che “in bianco” non era per forza sinonimo di cibo per il post-maldipancia. Oppure rivoluzioni assolute come il pranzo a buffet, che fece insieme sensazione e scandalo alle nozze della cugina di mia madre nel 1974, quando alcuni degli invitati non nascosero il proprio abruzzese disappunto di fronte all’assenza del servizio al tavolo. A parte le trovate “moderne”, restavano comunuqe molti punti fissi, che solo il decennio successivo avrebbe scalzato in via definitiva: era sempre un banchetto “di carne”, e prevedeva un menù che, con poche variazioni, recava ancora tracce di costumi ottocenteschi, di quelli descritti per esempio nel Gattopardo o da Matilde Serao, nel suo insuperato Saper vivere.

Risultati immagini per saper vivere norme di buona creanza

Un pranzo di nozze iniziava invariabilmente con un antipasto di salumi, formaggio e olive. Proseguiva con del brodo con la pizza rustica, o con un consommé a cui faceva seguito la galantina di pollo (che era servita per fare il brodo) insieme al lesso (come sopra). Poi le lasagne (“la sagna”, da noi), o, nei pranzi più rustici, la pasta alla chitarra al ragoût (non quello con il macinato, ma con il ragoût detto “napoletano”), che proprio negli anni Settanta e per nozze più evolute iniziavano ad essere sostituiti dal tris di primi. Dopo la portata di pasta era il turno del pollo, poi della carne rossa ai ferri o al forno con contorno di patate e di insalata. A queste poteva seguire o meno la prochetta. Nei pranzi di campagna, il dessert era in genere una semplice macedonia di frutta con o senza gelato, che preparava alla torta e ai dolci; in quelli cittadini la torta e i dolci erano preceduti da squisitezze antiche, come la Pesca Melba (da me adoratissima), che sulle tavole non proviciali erano state ormai abbandonate già da alcuni decenni.

Gli anni Ottanta sono stati una cesura rispetto a tutto questo. Il pesce ha sostituito la carne in via pressoché definitiva, e gli antipasti hanno preso il sopravvento, riducendo le altre portate a un interminabile, molesto intermezzo: si è satolli da un pezzo, ma andare via prima della torta proprio non si può, pare brutto.

Qualche tempo fa mi chiedevo che fine avesse fatto la Galantina di pollo. Stavo col pensiero di un piatto sparito dalla (mia) vista, ma che era invece una presenza ricorrente e sempre gradita dei banchetti di nozze di una volta. Ne ho trovata la ricetta, e l’ho rifatta. E poi ho capito il perché della sua sparizione. Non vi anticipo nulla, vi sarà tutto presto chiaro.

Galantina di pollo

Ingredienti (per un numero di persone imprecisato, tanto non la farete mica per voi soli, la Galantina; e seppure la faceste, dopo tutta la fatica che avrete fatto, non ne vorrete certo fare un’altra la settimana successiva):

  •  un pollo (il mio era ruspante, e pesava circa due chili. Vi consiglio di procurarvene uno sempre ruspante ma più piccolo, capirete dopo perché);
  •  600 g. circa di carne di manzo macinata;
  •  1 o 2 salsicce;
  •  150 g. circa di prosciutto crudo tagliato a fette sottili;
  •  300 g. circa di parmigiano e pecorino grattugiati;
  •  2 o 3 uova intere freschissime;
  •  1 carota;
  •  1 costa di sedano;
  •  foglie di prezzemolo;
  •  alcune olive verdi e nere;
  •  Marsala secco (un bicchierino);
  •  sale, pepe, noce moscata.

Preparazione:

chiederete al macellaio di disossarvi il pollo. È una operazione molto delicata, che solo pochi ormai sanno portare a termine in modo impeccabile: dovrete fare di necessità virtù.

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Dunque, riprendiamo. Salerete leggermente l’interno del pollo, foderandolo successivamente con le fette di prosciutto. Su queste porrete il macinato di manzo che avrete anch’esso leggermente salato, pepato, condito con una spolverata di noce moscata e amalgamato per bene con i formaggi grattugiati, aggiungendo un bicchierino di Marsala secco e qualche foglia di prezzemolo.

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Su questa base porrete poi la salsiccia (che avrete avuto cura di far cuocere per una mezz’ora con acqua e vino bianco), le uova sode e sbucciate, le olive denocciolate, la costa di sedano (privata dei fili) e la carota fatti a filetti (e disposti in senso longitudinale). A piacere aggiungerete dei pistacchi.

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Chiuderete i lembi del pollo, e, aiutandovi con un ago da pelle, filo e un ditale, li cucirete, facendo molta attenzione a non lasciare buchi. Ecco, si tratta di un’operazione delicata. Se il macellaio ha fatto un buon lavoro non sarà (troppo) difficile, altrimenti occorrerà essere pazienti: il grasso della pelle del pollo farà scivolare le vostre mani che non faranno presa sull’ago, e l’ago resterà a metà cucitura, senza andare più né avanti né indietro; la pelle del pollo tenderà a strapparsi, e altre amenità apripista di molte esclamazioni volgari.

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Qui c’era mia madre, che ha saputo risolvere una situazione disperata: il pollo era di due chili, ed era stato disossato malissimo, e di conseguenza era difficilissimo da ricomporre con ago e filo. La volta precedente c’era il Pitone, che, smadonnando durante la cucitura, mi ha intimato di bandire per sempre la Galantina dalla nostra cucina. Infatti quella che vi racconto è stata fatta a 500 Km di distanza.

Dovrete dare al tutto una forma tondeggiante e allungata, come un arrorsto ciccione. La nostra Galantina, date le dimensioni originarie del pollo e le difficoltà di cui sopra, alla fine aveva un’estetica discutibile, e pareva uscita da un film “de paura” di Carpenter, piuttosto che da una cucina festiva.

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Una volta terminata la cucitura, legherete con lo spago il tutto e porrete a cuocere a fuoco dolce insieme in acqua bollente in cui avrete messo a freddo ossi, sedano, carota, cipolla, qualche pomodorino “di Pechino” (come dicea una mia prozia megera ma carissima), cannella, chiodi di garofano e buccia di limone, insomma, come fareste con la carne da brodo. La Galantina dovrà cuocere per circa un’ora, un’ora e mezza (il tempo dipende anche dal suo diametro).

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Una volta cotta, lascerete raffreddare la Galantina nel suo brodo. Poi la scolerete e la porrete in frigorifero tenendola coperta per un giorno. Solo a questo punto potrete procedere ad affettarla. Al taglio si scopriranno le inaspettate composizioni che avranno formato i vari ingredienti del ripieno, con diversa armonia di colori e testure. Che poi faranno la delizia del palato, quando gusterete la Galantina come piatto di mezzo dopo una pietanza in brodo o un consommé, o, seguendo la moda del giorno, tra gli antipasti, sorprendendo i vostri ospiti con un sapore nuovo, cioè antico.

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Chiù! cioè, Ciomp!

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Per altra festa, per altri giorni

Le crispelle si fanno il 23 dicembre. Per questo è complicato parlarne sul blog. Bisogna essere dai miei quel giorno per fotografare il procedimento. Quel giorno, se no se ne riparla l’anno successivo. L’anno successivo con le crispelle, però, ritorna pure il Natale, e secolui uno dei periodi più impegnativi dell’anno lavorativo. Impegni che col Natale non  hanno niente a che vedere, ma si coaugulano sempre in quelle settimane di dicembre. Impegni che prevedono magari anche dover andare alla Scala per la prima opera della stagione,  magari poi anche all’inaugurazione il 7 dicembre, e si fa tutto con un filo di affanno. E le crispelle, fotografate l’anno prima,  non ci si ha più il tempo né la voglia di raccontarle. Signora mia, mica ci si sta dietro! Così si rimanda tutto all’anno dopo, e a quello ancora dopo, e a quello dopo ancora, e alla fine delle crispelle sul blog non si riesce  a parlare mai. Vero è che nei giorni sospesi tra Natale e Capodanno il tempo ci sarebbe tutto, ma lo sfrangimento da cibo e feste è anch’esso sfavorevole alla crispella,  anche solo alla sua idea. Poi arriva il momento giusto, quello in cui uno potrebbe anche mettercisi proprio il 23 sera al blog, dopo averle appena appena mangiate  le crispelle, perché le cose da fare tacciono magicamente. Ma quello è di norma l’anno in cui mia madre decide che le crispelle non si fanno.  E allora niente, si rimanda.

Crispelle 9

Quest’anno sarebbe stato uguale ai precedenti, se non fosse stato per uno dei commenti al mio ultimo post. Si parlava di fritti e disastri con un blogger che seguo sempre con grande interesse (qbbq. Quanto basta di cucina e altro). Saltano così fuori frittelle calabresi di pasta lievitata dure alla riuscita, e con loro la mia offerta di una ricetta  immagino simile. Quella delle crispelle. Simile perché anch’esse di pasta lievitata; simile ancora, credo, perché anch’esse frittelle del sud. Tra un commento e l’altro si è fatto Carnevale, tempo di altre frittelle, e altri dolci… io però le crispelle stavolta le racconto lo stesso, ché uno ogni tanto della stagionalità e delle feste comandate può pure allegramente decidere di non curarsene… non specifico che cosa, mi vengono solo espressioni in livornese irripetibili. Tanto avere capito.

Crispelle

Ingredienti:

  • 1 Kg di farina 00;
  • 2 cubetti di lievito di birra;
  • 1 patata (se grande), 2 (se più piccole);
  • la buccia grattugiata di un limone;
  • una presa di sale;
  • uvetta (quanta ve ne piace);
  • zucchero e cannella;
  • acqua appena calda per impastare (quanta ne riceve);
  • olio d’oliva extravergine per friggere;
  • preparazione atletica;
  • pazienza.

Preparazione

In un recipiente grande – da noi si chiamerebbe “tino” perché una volta in campagna si usavano quei recipienti di legno usati nella vinificazione – porrete la farina nella quale sbriciolerete il lievito. Merscolerete poi l’uvetta (precedente ammollata in acqua calda e, se vi piace, vino rosso o marsala), la buccia grattugiata di un limone e una presa di sale. Nel frattempo avrete lessata la patata. Una volta cotta la schiaccerete nella farina. Con acqua appena calda inizierete ad amalgamare gli ingredienti, formando un impasto molto morbido.

crispelle 1

Adesso arriva il bello. Se avete sorriso leggendo tra gli ingredienti “preparazione atletica”, adesso ve ne faccio passare la voglia. Sì, perché l’impasto, che finora vi sembrava un giochetto,  deve incorporare molta aria, altrimenti  al posto delle crispelle mangerete  dei copertoni fritti con zucchero e cannella. E onde evitare questo inconveniente dovrete sbattere l’impasto con la forza delle vostre braccia per una mezz’oretta. Avete capito bene. Metterete le vostre manine bell’impasto appiccicoso e inizierete a menare colpi. Dopo cinque minuti vi farà male tutto. Del braccio non dico nulla perché quello non ve lo sentirete più.  Stringete i denti, e imprecate: bisogna andare avanti. Avanti fino a quando l’impasto non inizierà a staccarsi dalle vostre mani. Avrete l’impressione che si stacchino anche quelle dalle vostre braccia: è il momento giusto. Coprirete tutto il tino con delle coperte, e farete lievitare fino al raddoppio dell’impasto.

Crispelle 2

A questo punto bisognerà friggere le crispelle. Porrete sui fornelli una grossa padella o una pentola adatta alla frittura, e farete scaldare abbodante olio extra vergine d’oliva. Con le mani bagnate (l’impasto resta appiccicoso) prenderete una po’ di pasta lievitata, allungandola e al contempo torcendola come vedete in foto, e la metterete a friggere, avendo cura di tenerla un attimo stirata con forchette di legno, perché non si ritiri.  Proseguirete così con le altre, facendo attenzione a girarle per farle colorire in modo uniforme. Una volta dorate, scolerete le crispelle, ponendole su carta assorbente, e le cospargerete ancora molto calde con una generosa spolverata di zucchero e cannella.

Crispelle 8

Gusterete le crispelle ancora calde a merenda (si friggono nel pomeriggio ed è impossibile resistere), o per cena, accompagnate da un’insalata. Dal giorno dopo diventeranno dure, ma non temete, basterà farle rinvenire sulle braci del camino per qualche minuto e torneranno buone come al primo giorno (in campagna, una volta, il 23 dicembre si facevano quantità industriali di crispelle, e si mangiavano scaldate così per tutte le festività, fino all’Epifania).  Se non avete il camino userete il forno, ma non è lo stesso.

crispelle 3

La modernità nel frattempo è arrivata anche in Abruzzo, e adesso le crispelle si fanno con molto più agio usando la planetaria. Attenzione, però, l’impasto delle crispelle è molto resistente. Se non ci avete un planetaria con la potenza giusta, il 23 dicembre potreste ritrovarvi con una planetaria fusa. Anni fa io e mio padre fa tentammo di risparmiarci la fatica dello sbattimento a braccia usando un trapano a cui avevamo collegato un accrocco fatto a posta. Rischiammo di buttare via il trapano. Ad ogni modo questa modernità a casa dei miei non è (ancora) arrivata. L’alternativa è andarle a comprare in pasticceria le crispelle, cosa che evita sbattimenti di tutti i tipi, ma non è facile trovare quella che le faccia come piacciono a noi… e poi non è lo stesso. Volete mettere?

Ciomp!

crispelle 6Ah, il Pitone domestico non è mai il 23 dicembre dai miei. Le crispelle però le ha mangiate, una volta, in agosto, quando, per una nottebianca (aiuto!), una pasticceria del posto si è messa a farne. Che tempi, signora mia!

Oh come tutto riluce di fritto

L’ultima volta è stato, credo, nel 1981. Non era mica facile convincere mia nonna a farli, li ciabbuott’ (i ciabbotti, in italiano «i ciccioni»). Anzi, era estremamente difficile. Lei era molto brava a dire un secco «no», con cui il discorso finiva.  E dire che ci mettevamo in tanti a tentare di smuoverla, compreso noi nipoti, ché, si sa, le nonne, specie quelle del Sud, ai nipoti non oppongono mai un rifiuto, soprattutto quando c’è cibo coinvolto (nonziamai!).    Solo quella volta però, credo nell”81, accettò di farci questi benedetti ciabbuott’. Le venivano molto bene. Ma mia nonna non aveva il gusto per la cucina. L’ho già scritto in altre occasioni: a lei piaceva lavorare la terra. Aveva dovuto imparare da piccola, visto che un fratello per aiutare i genitori sarebbe arrivato solo alcuni anni dopo di lei, e lavorare la terra sarebbe restata la sua vera passione. La cucina era un dovere che assolveva perché era necessario farlo, e lo faceva in modo corretto. Aveva imparato anche quella, come era ovvio per una ragaza della sua epoca e condizione. La nonna, però, non cucinava col trasporto e la creatività delle sue sorelle, cognate, cugine, parenti, tutte cresciute principalmente come «femmine di casa», prima che come contadine. Eppure questa nonna poco cuciniera era in casa l’unica a saperli fare davvero bene li ciabbuott’. Sicché bisognava sperare che le nostre preci avessero effetto presso di lei. Cosa che, come dicevo, accadeva molto, molto di rado.

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Sarà che forse qualche volta per sfinimento li ciabbuott’ alla fine ce li concedeva, sarà perché negli anni ’80 la cucina regionale povera godeva di scarsissimo interesse (erano gli anni in cui ci si sentiva “in” solo con i cocktail di scampi, le pennette alla vodka o il risotto allo champagne, devo aggiungere altro?), ma nessuno in famiglia ha mai pensato di aggirare l’ostacolo-nonna e imparare a fare li ciabbuott’ per conto proprio. Così li ciabbuott’ sono a poco a poco spariti dalla circolazione, sempre e solo raccontati, vagheggiati, assurti presto alla dignità di un mito gastronomico irripetibile e, di fatto, irripetuto. Sarebbe bastato poco per evitarlo, ma col passare degli anni la nonna, le sue sorelle, cognate, cugine sono invecchiate, poi una dopo l’altra ci hanno lasciato, e così addio ricette, e, soprattutto, addio pratica per li ciabbuott’.

Sì, perché la ricetta la si sarebbe pure in qualche modo recuperata. Ma, come spesso accade con la cucina povera, quello che conta davvero è l’esecuzione della ricetta: lì cascano gli asini. In questo tipo di cucina gli ingredienti in genere sono pochissimi e semplici, e o le cose si fanno a dovere o non ci sono reti di salvezza, si combina un disastro, e basta. È tutta e solo questione di pratica. E chi me la dava a me la pratica dei ciabbuott’ a quasi quarant’anni dall’ultima volta che li avevo assaggiati?

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Tuttavia, lo sapete, a me queste difficoltà piacciono assai. E mi fanno davvero venire l’uzzolo di provarci. E così è stato. Alla fine dello scorso novembre mi sono messo in testa di farli, li ciabbuott’. Era per giunta anche il periodo giusto: li ciabbuott’ non si mangiavano mica tutto l’anno, eh. Erano il cibo che dalle mie parti chiudeva la raccolta delle olive a fine novembre. Se ne preparavano quantità generosissime, accompagnati poi da altri fritti come le foglie di borragine in pastella e le cimbrignaccole (frittelle di pasta semplice, credo, ma devo indagare sull’argomento) e si friggevano nell’olio extravergined’oliva, manco a dirlo.

C’era però un problema nel fare li ciabbuott’. Dovevo fare una ricetta sconosciuta, fatta di tentativi sulla base di racconti di prozie sempre un po’ renitenti a dare troppi dettagli sulle loro ricette. Dovevo fare una ricetta sconosciuta, fatta di tentativi, e di tentativi fritti!, e fritti con l’olioextravergine d’oliva di mio padre! Il Pitone domestico avrebbe potuto non perdonarmelo, mai. Ho approfittato di un suo fine settimana di lavoro, e ho chiamati gli amichetti soliti delle mie scappatelle gastronomiche: P. e G.
G. è una cuoca esperta, P. un ottimo collaboratore, un vero marito, di quelli che risolvono i problemi, stile Harvey Keitel in Pulp Fiction: nessuno si sarebbe scantato dell’eventuale macello sui fornelli.

All’inizio eravamo tutti un filo esitanti. Non c’era una ricetta, solo impressioni e cose imprecise dette a denti stretti e sempre divagando (le prozie). Ma, insomma, alla fine ce l’abbiamo fatta.

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CIABBUOTT’
ricetta recuperata

Ingredienti

  • farina di granturco sottile, del tipo “fioretto”: due parti;
  • farina di grano duro (non la semola, la farina, occhio!): una parte;
  • sale;
  • acqua bollente q. b.;
  • olioextravergined’oliva.

 

Preparazione

Già dall’elenco degli ingredienti immagino abbiate notato l’aleatorietà delle dosi. La ricetta prevede una proporzione tra gli ingredienti principali. L’importante è che le parti siano sempre in rapporto di 2 a 1. Dunque, come prima cosa mescolerete bene le farine e il sale in un recipiente. Poi metterete a bollire l’acqua. Quando questa avrà raggiunto un bollore vivace, inizierete a versarla sulle farine mescolate, impastandole aiutandovi con un cucchiaio di legno. In questo modo “incuocerete” le farine, come si dice dalle mie parti. Continuerete a versare acqua bollente (dovrete sempre rimetterla sul fuoco per non fare affievolire il bollore) fino ad ottenere un impasto morbido, sì, morbido, ma non troppo. Deve essere una cosa che riuscite ad impastare ancora con le mani, come fosse una massa per la pasta, ma più morbida di questa.

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Lo so, è difficile capire come diavolo debba essere quest’impasto. Primo perché impastare le farine con l’acqua bollente rende anche l’impasto bollente, e ci si scotta. Secondo perché non c’è altro modo per capire come debba essere se non vedendolo. Vi dico però che anch’io ero nelle vostre stesse condizioni, ma nonper questo mi sono tirato indietro. Ho fatto due impasti: uno troppo liquido, e uno, credo, giusto.

Ecco, con l’impasto giusto, quello morbido quanto basta, formerete delle polpette che tufferete nell’olio ben caldo, e scolerete quando avranno assunto un bel colore ambrato. La ricetta originale prevederebbe l’uso della schiumarola per prelevare l’impasto da tuffare nell’olio, in modo da dare ai ciabbuott’ la forma caratteristica a mezzaluna. Qui le mie abilità culinarie, e pure quelle di G. (lasciamo perdere di P.) si sono rivelate insufficienti.

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Allora, questa è la storia a lieto fine: li ciabbuott’, sebbene non a mezzaluhna, sono venuti. Non so se siano venuti bene, buoni senz’altro: l’unione delle due farine ha come risultato un gusto lievemente dolce, che si sposa piacevolissimamente col salato. Sarebbero state ottime accompagnate all’insalata di puntarelle (altra verdura di stagione). Ci avevamo pensato anche io, G. e P. a prepararla, ma poi non ci siamo intesi su chi le avrebbe comprate le puntarelle, quindi abbiamo ripiegato su una comunissima insalata mista.

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La storia di fine funesto è invece quella che riguarda l’altro impasto, quello troppo morbido. Abbiamo cominciato a friggere quello per primo, ma sotto i nostri occhi li ciabbuott’ (questi sì fatti con la schiumarola) si disfacevano friggendo. Panico! Per evitare di mandare sprecati ettolitri di olioextravergined’oliva di mio padre (quando si frigge al Sud si frigge!) ho iniziato a recuperare tutti i frammenti degli sfortunati ciabbuott’ che riuscivo a recuperare. Sono riuscito a pulire l’olio per bene, per cominciare la frittura dell’impasto più sodo. Meno male che avevo foderato i fornelli con fiumi di carta stagnola, ché questa operazione di recupero dei ciabbuott’ disintegrati ha fatto cadere schizzi unti e sfrigolanti ovunque. Non oso pensare alla faccia che avrebbe fatto il Pitone.

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Ciomp!

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Sono liete, fortunate, (non) dolci, grate

A Regensburg sono arrivato la prima volta in marzo. Era il 1991, e io ero lì per l’ERASMUS. Il semestre invernale era finito da poco, quello estivo sarebbe iniziato solo in aprile; in giro c’erano pochi studenti, quasi tutti avevano approfittato della pausa per tornare dalle famiglie, o per concentrarsi nello studio a casa. Schengen era ancora lontana, e così le prime settimane sono passate tutte tra gli uffici dell’Università, gli uffici comunali per il permesso di soggiorno, che all’epoca richiedeva procedure un filo elaborate, gli uffici del servizio sanitario. Il tutto con l’ansia di non capire molto, cosa che puntualmente si verificava anche perché spesso mi parlavano in dialetto, con l’ansia di dover formulare domande di chiarimento all’impronta, magari con dietro una coda di Bavaresi impazienti, che è proprio un grande aiuto quando annaspi col cervello tra sintassi, casi, preposizioni e lessico, e con l’ansia di dover chiedere mille chiarimenti sui moduli da riempire, cosa che durava sempre molto, perché le parole del gergo giuridico non le sapevo e dovevo sempre ricorrere al vocabolarietto Langenscheidt, che odiavo consultare perché in genere ero sempre impicciato da cappotti in braccio (perché fuori era freddo ma dentro c’erano i Caraibi), zaini, formulari diversi, penne, documenti e chi più ne ha più ne metta, e dovevo aprirlo e cercare la parola con una sola mano e la matita in bocca. In lingua straniera si è più fantozziani che nella propria, sempre.

imageIn una di queste mattine di marzo tedesche e burocratiche a Regensburg, con Carla, la mia collega erasmiana, ci imbattiamo in una bancarella interessante, data l’ora. Erano circa le undici, e il signore dietro al banco, vestito con abito tradizionale, vendeva quelli che a entrambi parevano degli enormi biscotti della nonna. Con un solo anno di differenza, eravamo stati tutti e due  bambini nei ’70, e ricordavamo molto bene quei biscotti dal colore dorato a forma di catena, ricoperti di granella di zucchero. Abbiamo pensato di concederci una seconda colazione con un dolce d’antan, così, volante, spostandoci da un ufficio all’altro. E ci siamo divisi uno di questi biscottoni della nonna; uno solo in due, per non guastarci l’appetito per il pranzo (peraltro normalmente tremendo, nella locale mensa universitaria).

75146936Primo morso:  agghiacciante. Quello che a noi sembrava un biscotto ricoperto di granelli di zucchero era nient’altro che una Brezel, una specie di tarallone salato in superficie col sale grosso da accompagnare alla birra e ai Bratwürsteln. Siamo rimasti senza fiato dalla sorpresa di trovarci in bocca un gusto opposto a quello che atteso (cosa del resto molto frequente in quei giorni, specie nella mensa…), e siamo scoppiati a ridere, rischiando di finire sotto una macchina in una delle stradine del centro (oggi è un’isola stra-pedonale, ma nel 1991 tante cose erano diverse). Alla guida, a uno all’ora, c’era una signora bionda dal viso puntuto, che ci ha guardato malissimo (giustamente), strappando a Carla un sonoro “ce ssi’ bbrutta, signÒra!”, da allora espressione stabile del mio lessico familiare, e poi anche del Pitone (che si interronisce linguisticamente mica male…).

Superato lo shock del salato in luogo del dolce, la Brezel, poi, però, ci era piaciuta. Nei mesi successivi, non so Carla, ma io non perdevo occasione per mangiarne, in tutte le combinazioni possibili: Brezel con la birra, Brezel con i Bratwürsteln (rigorosamente con crauti e l’Händlmaier Senf), o Brezel calde con il burro spalmato sopra (questa è assai porcella, lo so).

imageQualche giorno fa, un blog che seguo sempre con grande piacere, Piatticoitacchi, ha postato la ricetta dei culurgiones sardi. Che mi tentava molto, ma qui, a Vienna, mi metteva un po’ in difficoltà: niente mattarello in casa, niente macchina tirasfoglia (figuriamoci!). Ammesso di riuscire a farli, i culurgiones, mi sarei trovato in ambasce poi anche con il pomodoro per il sugo… Insomma, qui la cucina austrotedescomitteleuropea mi si adatta di più all’ambiente, al mood, al panorama, all’arredamento. E allora ho provato il biscottone della nonna salato: le Brezel, appunto.

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Brezel

RICETTA

Ingredienti:

a) per l’impasto

  • 500 gr di farina 0;
  • 1 panetto di lievito di birra;
  • 1 cucchiaino da the di miele;
  • 10 grammi di sale fino;
  • 50 gr di burro a temperatura ambiente;
  • 250 ml circa di acqua appena tiepida;
  • sale grosso per la guarnitura.

b) per la soluzione alcalina. Sì, lo so, sembra una cosa da laboratorio chimico, ma non conosco una migliore traduzione per il termine Laugenbad (su internet ho trovato persino “lisciva”, vi lascio immaginare). Non spaventatevi, si tratta di acqua leggermente salata con del bicarbonato di sodio. Per quersto servono:

  • 1 litro e mezzo circa d’acqua;
  • una presa di sale grosso;
  • 50 grammi di bicarbonato di sodio.

 

Preparazione:

In un recipiente dalle sponde alte mescolerete bene il sale con la farina, e con questa formerete una fontana, al centro della quale sbriciolerete il panetto di lievito. Sul lievito verserete il cucchiaino di miele e un po’ dell’acqua, impastando velocemente fino a formare un composto liquido (attenzione: non con la farina, ma con lievito, acqua e miele; se poi vi ci scappa un po’ di farina non succede niente). Porrete il recipiente in un luogo caldo e tranquillo per una quindicina di minuti (il classico forno spento e precedentemente appena riscaldato) .

imageIl lievito col miele e l’acqua sarà a questo punto raddoppiato, e potrete procedere all’impasto con tutta la farina e con il burro molle a temperatura ambiente. Impasterete fino ad ottenere una massa omogenea e molto morbida. La riporrete di nuovo nel recipiente, e, coperta con un panno bagnato e strizzato, la rimetterete  nel forno spento e tiepido.

 

In circa una mezz’oretta la massa sarà più che raddoppiata. La impasterete di nuovo per alcuni minuti e la dividerete in tante pallotte come vedete in foto. Ognuna peserà 80/85 grammi, grammo più, grammo meno.

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imageCon le pallotte formerete dei cilindri irregolari: al centro rimarranno più spessi, e le estremità saranno più sottili. Queste verranno poi incrociate, o annodate , se preferite, comunque sempre riattaccate alla parte più spessa. Le lascerete riposare ancora per un quarto d’ora, dando loro il tempo di ricrescere ancora una volta.

 

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Nel frattempo avrete acceso il forno (statico) portandolo a 200°. Avrete pure preparato il bagno alcalino, portando ad ebollizione in una pentola l’acqua con la presa di sale. Quando l’acqua bollirà, allontanerete la pentola dal fuoco, e verserete con molta cautela e un poco alla volta  il bicarbonato. Al contatto col bicarbonato l’acqua inizierà subito a spumeggiare di vivace effervescenza, e, se non sarete accorte/i, il bagno alcalino ve lo farete voi, non le Brezel, quindi occhio!

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Calerete nel bagno alcalino le Brezel una ad una, spingendole verso il fondo con una schiumarola, lasciandole bollire per circa 30 secondi, dopo i quali le scolerete per bene (sempre con la schiumarola),  le porrete su una ramina (per i comuni non-Abruzzesi: una placca) che avrete avuto cura di coprire con carta forno, e le guarnirete da ultimo con del sale grosso (se preferite, potrete usare anche del sesamo, o del papavero, o quello che più vi aggrada). A questo punto le Brezel sono pronte per essere infornate.

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Le cuocerete per una mezz’ora circa, fino a quando non avranno assunto un bel colorito dorato, e risuleranno screziate di crepacci chiari, come si conviene alle Brezel.

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Ecco, le Brezel sono pronte, e sono da consumare ancora un filo calde, cosa che al Pitone non sarebbe affatto dispiaciuta, se fosse stato nei paraggi.

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Allora, se avessi voluto essere filologggico, avrei dovuto arrostirmi dei  Würsteln, accompagnandoli coi crauti,  Händlmaier Senf e birra. E invece il mio pranzo prevedeva asparagi locali (queli buonissimi del Marchfeld, appena fuori città) e, lo confesso, una burrata pugliese. Sì, la burrata a Vienna. Ci avevo solo quella in casa ed era domenica, niente filologggia quindi.

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Ancora un pranzo domenicale senza il Pitone. Con me c’erano però tante Brezel, che hanno forma di catene… Sono liete, fortunate, dolci, grate le catene d’un fido amor!

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Ciomp!

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Aus dem Süden

Sono a Vienna per lavoro da una settimana. Ho affittato un appartamento ammobiliato, nel nono Bezirk, per chi è pratico. Tipicamente viennese, l’appartamento ha le sue incomodità, ataviche da queste parti, come il bagno suddiviso rigorosamente in due atti, come le opere liriche del primo Ottocento. Si sa, Vienna è la città delle tradizioni perpetuate a nastro. E anche per quello l’amiamo. Per fortuna qui i due atti sono sufficientemente ravvicinati, sicché non c’è il balletto tra l’uno e l’altro, come invece c’era, eccome!, nella casa che abitavo una ventina d’anni or sono, sempre qui a Vienna, ma nel settimo. Lì addirittura c’era di mezzo un corridoio con svolta a sinistra e passaggio obbligato davanti alla porta d’ingresso. Vabbe’, lascio perdere. Questo è un blog di cucina, e in cucina certi argomenti non si toccano.

Dunque, aspettavo questo fine settimana per inaugurare il periodo viennese del blog. Avevo in animo di andare al Brunnenmarkt, che non è lontano da dove abito, e che è da qualche anno il mercato dove vanno i viennesi amanti della buona tavola. La cosa interessante è che, sebbene sia il mercato del momento, non è (ancora) diventato chic, è solo shabby, e parecchio pure. Questo è il suo bello. Avevo in animo di fotografarlo, e poi di procurarmi gli ingredienti per una bella ricetta imperiale. Se no uno che ci viene a fare nella capitale dell’Impero?

E invece, e invece no. Mi sono ammalato e sono chiuso in casa da due giorni, senza manco uno straccio di Pitone domestico per farmi accudire. Con una corsa al supermercato sotto casa mi sono procurato qualcosa per la sopravvivenza: altro che Brunnenmarkt! altro che ricetta imperiale!

Però…

…però uno che fa da solo tre giorni in una casa viennese col bagno in due atti ma senza balletto? Brodini vegetali! Si, vabbe’, li ho fatti, e li ho mangiati. Ma poi? Lavora! Anche quello, tutto il fine settimana, tanto per tenersi impegnati. Legge! Fatto pure quello. Il Pitone domestico allora mi soccorre a distanza (<3), e mi manda, su mia richiesta, una ricetta dalla provvidenziale Anna Gosetti della Salda. Una cosa semplice, perché sono appena arrivato qui, e, senza Brunnenmarkt, con gli ingredienti c’è poco da stare allegri. Al posto di un piatto asburgico, di nuovo una ricetta abruzzese, uffa! E no, però, qui adesso l’abituale ricetta terrona diventa una ricetta aus dem Süden, come le Rosen… più viennese di cosi…

Ciambelline campagnolericetta fuori luogo

Ingredienti

  • 250 gr. di farina di farro bianca;
  • 120 gr. di zucchero grezzo di canna;
  • 100 gr. di olio extravergined’oliva;
  • 100 grammi di vino rosso (o bianco se ci avete quello);
  • la buccia grattugiata di un un’arancia e di un limone (entrambi non trattati).

Già solo con l’elenco degli ingredienti dovrebbero esserci dei conti che non vi tornano. Che ci fa la farina di farro in una casa dove si è arrivati da sei giorni? La risposta è che non lo so. Saranno stati i fumi del raffreddore, o forse i decimi di febbre, ma non so proprio spiegare che cosa avessi in testa quando tra generi di prima necessità ho pensato che non avrei potuto fare a meno della farina bianca di farro.

 A questo punto, senza farmi più domande sul perché delle cose, mi sono accinto alla preparazione. C’era una trappola. La cucina moderna e attrezzata nascondeva inaspettate insidie. Avrei dovuto sapere che, in un posto dove non si mangia abitualmente pasta, la grattugia non è tra le dotazioni standard di una cucina. Infatti la grattugia non c’è. Ci sono però dei coltelli, anche ben affilati. Non resta che mettersi di santa pazienza a pelare e poi tritare la buccia dell’arancia e del limone, zicche, zicche, zicche, zicche fino ad ottenere qualcosa che somigli alla buccia di un’arancia e un limone grattugiati nonostante la grattugia che non c’è.

Mi è venuta una vescica all’indice sinistro, dico solo questo.

In un bacile di ceramica verserete la farina e la mescolerete con lo zucchero. Aggiungerete poi i liquidi e le bucce grattugiate (puozznomambenn’!) e impasterete fino a formare un impasto molto morbido ma non appiccicoso (se necessario, aggiungerete della farina). Una volta amalgamato bene l’impasto, lo avvolgerete nella pellicola e lo riporrete in frigo per un’oretta buona. In casa non c’è manco la pellicola. Ho dovuto usare la carta forno al suo posto, quella c’era.

Con l’impasto formerete dei cilindri, spessi circa un dito, che poi taglierete e unirete ottenendo delle ciambelle. L’impasto risulterà molto elastico, e le ciambelle tenderanno a chiudersi. Se avete le forme dei cannoli potrete usarle per tenere le ciambelle in forma. Io non l’ho fatto, le forme per i cannoli qui sono fantascienza. 

Metterete le ciambelle su una placca ricoperta con della carta da forno, o unta di strutto o burro e spolverata di farina, e infornerete in forno già caldo a 170-180 gradi. Qui il forno è molto tecnologico (da una casa viennese non me lo sarei MAI aspettato). Addirittura è combinato: è pure un forno a microonde. Ho studiato le istruzioni e sono riuscito a impostare temperatura e tipo di cottura. Ganzo! Ma poi il forno comincia a suonare. Aiuto! Che faccio? Riguardo le istruzioni. Non capisco. Smette. Vabbe’, penso, è stato un turbamento momentaneo. Inforno le ciambelle.

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Passano i venti minuti prescritti per la cottura. Apro il forno e controllo (da fuori non si capisce molto, c’è una retina nera sul vetro che non aiuta certo). Chiudo rapidamente. Ci sono luci che lampeggiano. E mo che faccio? Rileggo le istruzioni, ma non c’è tempo. Schiaccio di nuovo il tasto che lampeggia d’azzurro. Sono piegato in avanti; davanti a me un elettrodomestico futuribile che manda luci azzurrine in un cucina buia, mi sento cioè come la principessa Leila che affida il messaggio d’aiuto a C1 nel primo (vero) episodio di Guerre stellari. Funziona, il forno si acqueta.

Ecco, alla fine le ciambelline si sono cotte, e anche bene: il forno ha fato il suo dovere come il bravo C1 del film. Dovrò aspettare domani per mangiarle. Forse per il the riceverò la visita pietosa di alcuni amici, e sarà l’occasione giusta. Nel frattempo durante la preparazione, la cottura e la scrittura sul primo canale della radio austriaca ascolto la Juive di Halévy. Non me la ricordavo così bella. La trasmettono in diretta dall’opera di Vienna. In cinque atti, ma senza il balletto, come i due bagni della casa viennese in cui mi trovo.

Ho scelto un piatto inzolito

A Napoli, a cena con amici. E con amici degli amici. Davanti al ristorante c’erano amici di amici che non venivano a cena ma passavano per un saluto. E con loro c’era un amico che era per caso con gli amici degli amici e, giacché c’era, si è aggregato pure lui ai saluti. Li ho baciati tutti, all’andata e al ritorno. A cena poi c’erano solo gli amici e gli amici degli amici. Tra le altre cose, con gli amici e gli amici degli amici ci siamo fatti un po’ anche i fatti degli amici degli amici, che erano passati solo per un saluto, e dell’amico aggregato . Così, tanto per contestualizzarli. Amo Napoli!

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Gli amici quella sera mi avevano portato in un ristorante dalla cucina eccellente. Pochi piatti e perfetti. Che mi hanno rimesso la voglia della cucina terrona. E quando mai l’avevi persa? penserete voi. Gli è vero, non l’ho mai persa, ma dopo quella serata è divenuta più intensa, se è possibile. Sì, perché la cucina napoletana è la cucina di una capitale, ha sempre un tratto di urbana grandezza che alla maggior parte delle cucine terrone manca. E noi terroni provinciali e campagnoli (l’Aruzzo era considerato poco  più che una terra di orsi e di lupi) di fronte ai fasti della capitale restiamo sempre a bocca aperta, e vogliamo pure noi provarci ad esserlo un po’ della capitale, è famoso. Se no che capitale sarebbe?

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Pasta campana, e campana con cicirchiata

 

Pasta con la Genovese, piatto inzolito

Ingredienti per il sugo (per 4 persone; attenzione, però, è una dose napoletana, quindi ci mangiate almeno in 8):

  • 1,5 Kg di polpa di manzo (ho usato il Cappello del prete; a Napoli usano soprattutto il Lacerto. Non ho osato chiederlo alle macellerie di qui, perché ogni volta che in passato qui ho chiesto un taglio coi nomi di giù, mi sono dovuto intrattenere in discussioni ipertecniche coi vari macellai, ma stavolta non avevo tempo. Magari avrei scoperto che il Lacerto qui in Lombardia si chiama Lasert, e ci avrei messo cinque minuti, ma tant’è. Comunque, il Cappello del prete va benissimo);
  • 1,4 Kg di cipolle rosse di Tropea (cioè dolci. Quest’ultimo è un dettaglio fondamentale. Se non sono di Tropea e sono dolci vanno bene lo stesso);
  • una carota;
  • una costa di sedano;
  • 4 cucchiai di ottima passata di pomodoro;
  • olioextravergined’oliva;
  • vino bianco;

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Ingredienti per la pasta:

  • pasta liscia (e mi raccomando LISCIA!) di ottima qualità, tipo zite, paccheri o candele, e basta. Se è pasta campana è meglio.

Preparazione:

Taglierete finemente la carota e il sedano, e li farete soffriggere in una tegame (meglio se di coccio o di ghisa) con dell’olio d’oliva extravergine fino a quando non diventeranno morbidi e trasparenti. Nel frattempo affetterete sottilmente le cipolle: col coltello, se vorrete versare fiumi di lacrime, con un robot da cucina se vorrete commuovervi di meno (ma solo un po’ di meno). Taglierete a pezzi grossi la carne.

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Quando le carote e il sedano saranno appassiti per bene, li sfumerete con del vino bianco. Indi, porrete nel tegame la passata di pomodoro, i pezzi di carne e le cipolle. Sfumerete ancora con del vino. Coprirete con un coperchio pesante e farete cuocere a fuoco molto dolce per circa 3 ore, rimestando di quando in quando. Il coperchio pesante è importante per permettere alla carne e alle cipolle di stufarsi tirando fuori (propr. “cacciando”) i loro liquidi. Importante il coperchio pesante è pure perché ripara un filo la vostra casa e tutto il suo contenuto umano, animale, vegetale e inerte dal profumare di cipolla per settimane.

IMG_2244Dopo circa tre ore, le cipolle si saranno sfrante e il sugo sarà quasi diventato una crema rosata. Aggiusterete di sale. Toglierete la carne e la metterete al caldo da parte, mentre continuerete a far cuocere il sugo, facendolo ritirare fino a formare una crema.

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Il giorno dopo, o anche più, lesserete della pasta liscia, e la condirete col sugo della Genovese. Tanto sugo, mi raccomando. Servirete poi con sopra scaglie di parmigiano, o, se preferite, di buon pecorino, o uno dei due formaggi grattugiati. Ma che siano abbondanti, la cucina napoletana non conosce giansenismi (e per fortuna!). Non guasterà una lieve tritata di pepe. La carne, anch’essa inondata del suo sugo, la mangerete per secondo. O la terrete per un altro giorno, magari da mangiare con della polenta (cosa che ho fatto qualche giorno dopo. Ah, Les goûts réunis).

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«Addio, mia nella Napoli…». Il Pitone domestico ha gradito questo ennesimo interronimento della nostra cucina lombarda (intesa come luogo, va da sé). Un grazie di cuore a L., C., S., F. e b13ne, gli amici e gli amici degli amici. Senza di loro, gli amici degli amici degli amici, e i fatti degli amici degli amici degli amici, la serata al ristorante non sarebbe stata la stessa, non avrei ritrovato questo piatto, e Napoli l’avrei sempre amata, sì, ma mi sarei divertito molto di meno. A b13ne devo poi anche consigli fondamentali per la ricetta. Spero a presto, nella capitale, s’intende.

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Ciomp!

 

Fiadoni a Gallipoli

Le vacanze del blogger possono essere insidiose. Per me era la prima volta: quella del 2014 è stata la mia prima estate da blogger, da food blogger. Non potevo immaginare che mi sarei trovato a fronteggiare dal vivo, letteralmente ‘senza rete’, affamati ed esigenti lettori. E sì perché uno pensa che averci il blog di cucina in fondo ti mette al riparo dalla prova assaggio. Chi ti legge mica le mangia le cose che cucini e fotografi, no? Le vede, le legge, ma non se le può downloadare. Se poi tu hai preparato una autentica schifezza ma di bell’aspetto non se ne accorge nessuno. Tranne il Pitone domestico, ovviamente, il quale è magnanimo e tace. Quindi, se il pandispagna sembra di polistirolo, la (il? boh?) felafel  è “nu matòne”, e il salmì un prodotto petrolchimico l’occhio potrebbe comunque avere la sua parte, e il blogger avere così salva la reputazione.

Ma

Ma il food blogger ci ha gli amici, e, soprattutto, le amiche. Raffinate, esigenti, esigentissime, gourmandes e affamate che leggono il blog e poi richiedono la performance dal vivo di quello che hanno letto e che le ha incuriosite. Potevo dire di no a M. che non vedevo da un anno? Potevo dire di no a M. che mi invitava nella sua casa di Gallipoli per qualche giorno di mare come si deve? Potevo dire di no a M. che mi invitava col preciso scopo di farle i due Fiadoni, quello dolce che vi avevo raccontato su questi schermi tempo fa, e quello salato di cui avevo solo accennato (mannaggia a me, mannaggia)? Certo che non potevo. E così addio alla protezione della rete: il food blogger sarebbe stato chiamato alla prova dei fatti.

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Fiadone dolce a Gallipoli

Che ansia!

Sì, che ansia, anche perché per fare i Fiadoni fuori dal loro habitat bisogna programmare tutto al millimetro. L’ingrediente principale del Fiadone dolce (il formaggio fresco senza sale) in Salento non si trova; a dire la verità nemmeno quello del Fiadone salato, il rigatino, caciotta semidura vaccina e ovina. M., l’amica lettrice, non si perde certo d’animo di fronte a queste bazzecole (che, diciamolo, hanno terrorizzato e quindi scoraggiato tutte voi già da un pezzo): commissiona ad un caseificio locale il formaggio fresco senza sale apposta per poter gustare il Fiadone dolce fatto sotto il suo tetto; nel frattempo io discendo nelle Puglie con borsa frigorifero rigatinomunita.

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Fiadone salato a Gallipoli

Comincia così la performance fiadonica sub utraque specie. La ricetta del Fiadone dolce l’avete già letta e la trovate qui, non la ripeto. Quella del Fiadone salato l’ho ripresa da questo ottimo sito, ma ho fatto qualche variante che ora vi racconto.

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Fiadone (salato) a Gallipoli: ricetta estrema

Ingredienti

Per la pasta:

  • 2 uova;
  • 150 gr. di farina 0 (la dose è indicativa; l’indicazione giusta sarebbe “quanta ne riceve”, l’impasto deve essere morbido ed elastico, ma non deve appiccicarsi alle mani, quindi, regolatevi);
  • 4 cucchiai d’olio extravergine d’oliva (o anche più se volete);
  • un pizzico di sale;
  • mezzo cucchiaino di bicarbonato di sodio.

Amalgamerete gli ingredienti fino a formare una pasta morbida ed elastica, come dicevo, che riporrete in frigo a riposare per qualche ora. Questa pasta è stata eseguita mirabilmente da M. mentre il blogger faceva la pennica pomeridiana nella sua stanza salentina dalla volta alta.

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Per il ripieno:

  • 400 gr. di formaggio rigatino grattugiato. Meglio grattugiarlo la sera prima e farlo asciugare all’aria. Io non l’ho fatto, e l’ho grattugiato il giorno stesso di ritorno dal mare. Col risultato che per farlo asciugare ho dovuto usare il phon cercando di non spargere  formaggio per tutta la cucina. Non nascondo che il limite tra il virtuosismo spinto e la scena fantozziana può essere davvero molto sottile;
  • 100 gr. di grana o parmigiano grattugiato (vabbe’, qui andiamo sul facile);
  • 8 o 9 uova intere (è un piatto leggero e estivo, no ve l’avevo detto?)
  • un cucchiaino di bicarbonato di sodio.

Mescolerete gli ingredienti fino a formare un composto cremoso ma senza grumi. Potrete aiutarvi con uno sbattitore eletttico.

Fodererete una teglia con la pasta, tenendone un po’ da parte. Nella teglia così foderata verserete la crema di formaggio e uova, guarnendola con le strisce di pasta avanzate (che avrete rifilato con il carratore, altrimenti chiamato tagliapasta).

Cuocerete in forno preriscaldato a 180° circa (ma ognuno sa i forni suoi) fino a che il Fiadone non sarà cresciuto formando una cupola e non avrà assunto un bel colorito dorato.

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Fiadone salato a Gallipoli

Detta così sembra un gioco da ragazzi. Quello che non sapete è che la cucina di M. è un luogo estremo. Di una bellezza travolgente: pieno di pentole e attrezzi di una volta, sembra di essere nella cucina di nonna Speranza, anzi, ci si è proprio nella cucina di nonna Speranza. Tutto risale ad almeno sessanta anni fa (almeno!), compreso il forno che data al 1946.

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Quello che non sapete è che mentre cercavo di preparare le due torte in contemporanea, in cucina c’erano tre bambini che guardavano i cartoni animati. E che uno faceva capricci per non mangiare la sua cena. Che la spianatoia su cui stendere la pasta era troppo dell’epoca di nonna Speranza, e, per non disturbare i suoi tarli a quella che sembrava una poco urbana controra, si è deciso all’improvviso di sgombrare una parte della cucina. Che volava farina dappertutto tra il vociare allegro dei bambini e della nonna F. che cercava di far mangiare loro la cena. Che è finito il gas della bombola proprio quando dovevo infornare la prima torta.  Che non si trovava il numero dell’omino delle bombole del gas (erano già le 19.30, ma questo a Gallipoli non è un problema, per fortuna). Che l’omino del gas ha portato la bombola con l’attacco sbagliato ed è dovuto tornare a prendere quella giusta e riportarla. E che il forno del 1946 ha solo due temperature: acceso e spento, e il Fiadone salato è delicatissima cosa per la cottura (ma il forno del ’46 ha cotto i due Fiadoni in modo impeccabile – quando penso al mio forno ‘tecnologico’ del 2008 che a volte mi fa disperare mi ci viene una rabbia!).

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Cucina estrema di nonna Speranza a Gallipoli

Fiadoni a Gallipoli: se il rafting vi ha stufato, se il parapendio non vi dà più i brividi usati, eccovi l’ultimo grido in fatto di sport estremi.

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Alla fine la performance dal vivo è avuto esito molto positivo: ho dovuto frenare M., la nonna F. e l’amica M. E. ché altrimenti R. (il papà) al ritorno non avrebbe trovato manco le molliche del Fiadone salato.

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Les Fiadons réunis (con liquori degli anni ’30 e maschera di Goldrake)

Anche quello dolce è stato un successo, ma questa storia ve l’ho già raccontata.

Ora sono un blogger navigato: cio ho i miei primi Fiadoni estremi a Gallipoli, ci ho. Mica pizza e fichi!

Ciomp!

Ah, il Pitone domestico non c’era, ha visto solo le foto e sentito i racconti (e ora leggerà il blog). Povero 😦

Fiadone: torta buona e impossibile

Stavolta vado sul difficile, anzi, sul francamente impossibile. Saranno contente le mie lettrici (sì, lettrici, non lettori) che ritengono già il mio blog pura fantascienza culinaria, visto che non contempla nessuno dei loro abituali manicaretti, come spinacine, tortellini in busta, bastoncini di pesce impanato e altre tristezze analoghe. Finalmente potranno accusarmi a ragione, visto che, a botta di dagli e dagli, la ricetta impossibile poi è arrivata per davvero.

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Dunque, il titolo a effetto va decostruito. Giusto un filo, così, per dare una parvenza di serietà a questo blog.

Fiadone. “Fiadone” è il nome di una torta salata di Pasqua al formaggio pecorino. Il nome “Fiadone”, diciamolo, non è certo dei più bene auguranti, e lascia per giunta intendere effetti collaterali poco lusinghieri. Dopo aver mangiato un “Fiadone”, non è che uno si aspetti proprio sensazioni da “ti spunta un fiore in bocca”.
Torta buona. Oltre alla versione salata, ottima e ruspantissima, del Fiadone esiste una versione dolce, ottima anch’essa (noi abruzzesi chiameremmo entrambe “pizza”, come ormai sapete). Non saprei se si tratta di un dolce inventato di recente o della tradizione; nella mia famiglia è stato introdotto nel corso degli anni Settanta, e da allora allieta le mie feste pasquali.
Torta impossibile. Proprio proprio impossibile non è, giacché la fa mia madre, e la fanno in molte e molti in Abruzzo e nel Molise. Ci sono diversi gradi di impossibilità. Il primo è quello che riguarda le lettrici di cui sopra, che fuggono terrorizzate anche di fronte al più innocente ciambellone da colazione, e, quindi, non fa testo. Il secondo, invece, riguarda la reperibilità degli ingredienti. Per fare il Fiadone occorre il formaggio fresco senza sale. Al Nord è impossibile trovarlo. Al massimo c’è il primosale, che, come si capisce dal nome, non va bene.

Sillogismo riassuntivo:
Per il Fiadone occorre il formaggio fresco senza sale;
Al Nord questo formaggio non esiste;
Al Nord il Fiadone non si può fare.

Questo sillogismo non fa una grinza. Cioè, a dirla tutta, questo sillogismo un problema ce l’ha: parte dal tacito presupposto che il formaggio si possa solo comprare. E invece il formaggio fresco si può anche fare in casa, come ho già fatto, ovviamente, e come vi racconterò un’altra volta, perché credo così di aver osato troppo. Le povere lettrici di cui sopra sono, in fondo, care amiche, e non vorrei mai traumatizzarle.

Pomeriggio caseario 012(questo è il formaggio che ho fatto io)

Riprendiamo. Allora, questo Fiadone, nonostante il nome, è un dolce universalmente riconosciuto come ottimo, e non è universalmente impossibile, lo è solo in determinati contesti (o nelle mani sbagliate…ih ih ih 😉 ).

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Fiadone
Torta buona e impossibile

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Ricetta

Ingredienti

Per la pasta frolla

  • 2 tuorli d’uovo + 1 uovo intero;
  • 250 gr. di zucchero semolato;
  • 1 bicchiere d’olio extravergine d’oliva;
  • 1 bicchiere scarso di latte;
  • la buccia grattugiata di 1 limone e di 1 arancia;
  • 450 gr. di farina;
  • 1 bustina di cremor tartaro (o, per i pivelli, comune lievito per dolci).

Preparazione della pasta frolla

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Fate la fontana con la farina, aggiungete tutti gli ingredienti e amalgamate fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo. Avvolgetelo quindi nella pellicola trasparente e riponetelo in frigorifero a riposare per almeno un’ora (io lo faccio sempre la sera prima, credetemi, è meglio).

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Ripieno

  • 10 uova (che c’è? vi siete scantati? e perché mai? mica lo fate tutte le settimane il Fiadone, per una volta 10 uova potete pure usarle);
  • 250 gr. di zucchero semolato;
  • 1 bicchiere di olio extravergine d’oliva;
  • 450 gr. di formaggio fresco senza sale;
  • cannella in polvere, 1 cucchiaino colmo o anche più se vi piace (a me piace e ne metto sempre di più);
  • 1 bicchiere di liquori misti (rhum, anisetta, maraschino, Strega, Alchermes);
  • 100 gr. di savoiardi (di pasticceria, mi raccomando, o fatti da voi);
  • un po’ di vaniglia (se usate la vanillina, fatelo di nascosto e vergognatevi).

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Preparazione generale

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In una ciotola bagnate i savoiardi coi liquori (foto sopra). In una terrina battete le uova intere con lo zucchero, fino ad ottenere un composto chiaro, omogeneo e spumoso (non spaventatevi, gli sbattitori elettrici servono a questo).

imagePassate il formaggio al passapomodoro, poi unite e amalgamate tutti gli ingredienti del ripieno.

imageIl risultato sarà una crema spumosa e fluida.

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Foderate di frolla una teglia grande o, come abbiamo fatto noi, due piccole, versateci quindi il ripieno. image

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Cuocete a forno caldo (180°, ma ognuno sa i forni suoi) per un’ora, o, almeno, fino a quando il dolce non prende un bel colorito bronzeo, come vedete nella foto.

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A questo punto il fiadone è pronto. Attenzione, però, non potete ancora papparvelo, perché è uno di quei dolci che hanno bisogno di ore di assestamento del gusto dopo la cottura. Quindi, rimandate la festa al giorno, anzi, meglio, ai giorni successivi.

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Lo so, ho fatto lo snob senza freni, come se il Fiadone l’avessi fatto davvero io. Ero a casa dei miei, e l’ho fatto come assistente di mia madre. Anche se non vuole mai riconoscerlo, è lei la brava cuoca a cui devo la maggior parte delle conoscenze che poi in questo blog vi faccio in genere pesare, e molto. 😀

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Il Pitone domestico non c’era durante la preparazione. Sono stati i Fiadoni che l’anno raggiunto quando era ormai il tempo giusto per mangiarli. E li ha mangiati. Eccome se li ha mangiati! image

Ciomp!

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La cucina dei veri uomini

I veri uomini cucinano. Ma cucinano solo poche cose. Fanno solo la cucina dei veri uomini. Appunto. Niente verdure. Niente dolci. Solo carne, pesce o, al massimo, pasta, ma spaghetti, solo quelli e piccanti. Sono veri uomini. Se fosse per loro manco le cucinerebbero queste cose. Le mangerebbero così, i veri uomini. Mica si pigliano i virus, i veri uomini. Ma i veri uomini devono scendere a patti col mondo. E quindi, poi, carne e pesce li cucinano anche. Solo in certi modi però. Solo nei modi previsti per i veri uomini. Se sono veri uomini veri, la carne e il pesce li hanno catturati con le proprie mani. Sennò che veri uomini sono?
Di fronte a quei due pezzi di cinghiale ero un po’ perplesso. Non l’avevo catturato io, ma uno di quegli uomini veri di cui sopra, ed era stato regalato ai miei. Perplessi un po’ pure loro, ché il cinghiale, come me, non l’avevano mai cucinato. Non cucino spesso carne, come avrete capito leggendo il mio blog; questa era forse l’occasione giusta per cimentarsi con qualcosa di difficile e diverso. Qualcosa da uomini veri. Eccome.

Cinghiale in salmì
ricetta

ingredienti (per le persone che ce la fanno a mangiarselo, non so proprio dirvelo per quanti. E poi, bisogna proprio? Se avanza lo tenete in frigo, senza tante storie)

1 kg di polpa di cinghiale, meglio se con osso;
2 litri di buon vino rosso (ho usato il montepulciano d’Abruzzo che fa mio padre, che il vino lo fa proprio bene, questo per dire che il vino deve essere di corpo e buono)
1 cucchiaio di bacche di ginepro;
1 cucchiaio di pepe bianco e nero in grani;
1 cipolla;
2 carote;
1 costa di sedano;
1 rametto di rosmarino;
2 spicchi d’aglio;
3 foglie di lauro;
1 ramo di prezzemolo
1/4 di una stecca di cannella, o meno, se credete (con la cannella io non sono mai timido, mi piace assai, ormai l’avete capito);
7 o 8 chiodi di garofano (per la quantità di questi vedi alla voce “cannella);
1 grattata di noce moscata;
sale quanto basta

Preparazione

In una teglia capiente, o, meglio ancora, in un bacile di ceramica, mettete la carne a macerare nel vino con gli odori e le spezie che vi ho elencati sopra, avendo cura di affettare la cipolla e le carote. Agli e sedano, invece, li lascerete così, interi. Badate che la carne deve essere coperta dal vino, se la quantità indicata non fosse sufficiente, aggiungetene. Ponete la teglia o bacile, purché coperta, in frigorifero e lasciate riposare per almeno 12 ore.

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Passato questo tempo, togliete la carne, tagliatela a pezzetti e riponetela a macerare nuovamente per almeno altre 12 ore.

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Una volta terminata la la seconda marinatura si può procedere alla cottura.  Scolate bene la carne dalla marinata. Ungete il fondo di una pentola con dell’olio extravergine d’oliva, scaldetelo, e rosolate il cinghiale per qualche minuto (non impazzite a liberarlo delle spezie e verdure che vi restano impigliate, rosolate pure quelle).

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Dunque, eliminate dalla marinata aglio e sedano interi. Lo faccio perché darebbero un sapore troppo forte il primo, troppo da minestrone il secondo, e poi il loro servizio aromatizzante hanno già avuto tutto il tempo di svolgerlo. A questo punto aggiungete la marinata alla carne rosolante e fate cuocere a fuoco dolcissimo. Lasciate il cinghiale sul fuoco per almeno 4 ore a pentola coperta, controllando che non attacchi, e rimestando di quando in quando.

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Sarà pronto quando la carne sarà tenera, il vino assorbito e le spezie sfrante. Aggiustate di sale e servite. Potete gustarlo così, con della polenta, o condirci dell’ottima pasta. A voi la scelta.

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Io ho fatto come gli uomini veri, l’ho mangiato così, senza manco il pane. Eh, gli uomini veri, quando sono veri per davero… 🙂

Il Pitone domestico mi ha dato delle dritte fondamentali per la preparazione, ma non c’era, quindi non ha potuto gradire. Ma di sicuro avrebbe.

Ciomp!

 

 

 

 

 

 

Bello scompiglio di primavera

In un giorno pieno di impegni, nello spazio morto tra gli uffici comunali e il gommista ho pensato di fare un minimo di spesa per la sopravvivenza nel fine settimana. Già, perché, checché ne pensino alcune amiche devote ai cibi pronti del supermercato, anche chi ci ha un blog di cucina lavora e si barcamena tra gli impegni e le scadenze, ciononostante… Dunque, in questa inebriante mezz’ora in cui attendevo il cambio delle gomme, sono andato dal fruttivendolo “giusto” (si vede che c’ero negli anni Ottanta, no?), e lì il pomeriggio mi ha di nuovo sorriso: fave fresche (piccole, verdi, non acciaccate e marroncine come quelle che in genere si trovano qui), piselli freschi (teneri, non l’abituale tungsteno verde in baccello), carciofi turgidi e chiusi (con le spine, però. Non si può avere tutto del resto). All’idea di quella verdura un vulcano è diventata la mia testa. L’indomani sarei andato al mercato, e lì, da Carmen e Fabio avrei trovato senz’altro i loro ottimi asparagi freschi. Ecco fatto, in un attimo tutti gli ingredienti c’erano o ci sarebbero presto stati. Tornare dal gommista a quel punto non mi pesava più.

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C’è un problema, però. Che ricetta faccio, cioè, come la chiamo ‘sta ricetta? Non è né una Frittedda, né una Vignarola. Ci sono gli asparagi, che nella prima non ci vanno (lo dice Anna Gosetti della Salda, n. 2004); nella seconda è previsto il guanciale, che io però non avevo in casa. Insomma, non chiedetemi la parola, non è né l’una né l’altra.

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Frittedda Presunta   Falsa Vignarola

ossia

Bello scompiglio di primavera

ricetta

Ingredienti

  • 4 carciofi;
  • 500 gr. di fave fresche e tenere;
  • 500 gr. dipiselli freschi e teneri;
  • 500 gr. di asparagi;
  • 1 cipollotto fresco di media grandezza;
  • qualche rametto di menta fresca;
  • 1 limone;
  • vino bianco;
  • olio extra vergine d’oliva;
  • tegame di terracotta (fa un’enorme differenza il tegame di terracotta, quindi usatelo).

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Preparazione

Mondate i carciofi, privandoli delle foglie più coriacee e tagliando le punte. Tagliateli a metà e immergeteli in acqua acidulata col succo di un limone. Liberate fave e piselli dai loro baccelli, sciacquateli e metteteli a sgocciolare in recipienti separati. Lavate gli asparagi, scolateli ed eliminate le parti più dure.image

Mettete una pentola d’acqua a bollire. Tagliate il cipollotto a rondelle, e poi queste a pezzi più piccoli. In un tegame di terracotta scaldate un po’ di olio e soffriggete la cipolla, avendo cura di farlo su una fiamma dolcissima. Quando la cipolla sarà appassita, aggiungete i carciofi, che avrete nel frattempo tagliati a fette sottili. Mescolate, e appena riprende lo sfrigolio sfumate con un po’ di vino bianco. Una volta evaporato il vino, coprite e lasciate stufare. Aggiungete se serve un po’ d’acqua, per aiutare la cottura.

imageQuando i carciofi saranno morbidi, potete versare le fave. Dopo aver mescolato per bene, verserete dell’acqua bollente, e lascerete continuare la cottura a tegame scoperto. Una volta che vedrete le fave cambiare di colore, aggiungerete i piselli, usando anche stavolta un po’ di acqua bollente. Fate cuocere a tegame scoperto (se serve aggiungerete ancora un po’ d’acqua bollente).

Quando le fave e i piselli si saranno ammorbiditi, aggiungete gli asparagi, salate e coprite. Da questo momento saranno necessari dai 7 ai 10 minuti. Poi la Frittedda Presunta o la Falsa Vignarola ossia  Bello scompiglio di primavera è pronto per essere servito, spolverandolo con una mezza manciata di menta fresca tritata.

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L’abbiamo accompagnato con della ricotta freschissima di capra, con una frittata con le patate (solo io, però), e col vino bianco del papà.

imageIl Pitone domestico ha approvato questa ricetta, un po’ meno lo scompiglio che ha creato la preparazione, con bucce, baccelli e “scorce” ovunque (qui ci voleva un “dungandò”,  gli Abruzzesi mi capiranno), che però sono lo charme di un sabato mattina furioso in cucina.

imageCiomp!